Votes taken by Aaron Mcklain

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    A mio parere le due storie non si possono confrontare...il killer dello zodiaco era solo un uomo che si dilettava a scrivere messaggi cifrati e lettere, molte delle quali poco veritiere (si è inventato molti assassinii e attribuito omicidi con cui probabilmente aveva poco a che fare). Per come la vedo io era solo un uomo, squilibrato mentalmente che ha avuto molta fortuna.
    I fatti del mostro di firenze presentano invece delle componenti uniche, esoteriche, massoniche, presunte associazioni a delinquere, numerosi insabbiamenti, sparizioni.
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    Killer dello Zodiaco è la traduzione italiana di Zodiac Killer, o Zodiac, nomignolo con cui è noto un serial killer statunitense attivo nella California settentrionale per dieci mesi alla fine degli anni sessanta del XX secolo. Egli stesso coniò questo nome in una serie di lettere di sfida alla stampa datate fino al 1974: queste ultime contenevano quattro crittogrammi o messaggi cifrati, tre dei quali rimangono ancora senza soluzione.

    "Zodiac" uccise cinque persone a Benicia, Vallejo, al Lago Berryessa e a San Francisco tra il dicembre 1968 e l'ottobre 1969: furono colpiti quattro uomini e tre donne di età comprese fra i 16 e i 29 anni, due di loro sopravvissero alle aggressioni. A Zodiac sono state attribuite anche numerose altre vittime, senza tuttavia sufficienti prove per confermarle.

    L'identità del killer rimane ancora oggi sconosciuta. La polizia di San Francisco ha catalogato il caso come "inattivo" nell'aprile del 2004, ma l'ha riaperto nel marzo 2007; anche in altre giurisdizioni il caso rimane aperto.


    Vallejo e Benicia sono due cittadine che si affacciano sulla Baia di San Pablo, vicino allo Stretto di Carquinez, poste all'incirca a 20 miglia nord-est di San Francisco. Negli anni '60 i posti tra le due cittadine erano praticamente disabitate e ancora oggi l'autostrada che le unisce non è del tutto asfaltata.

    Poco prima delle 21.00 del 20 dicembre 1968, in queste zone, viene avvistata una macchina metalizzata a quattro porte.
    Nemmeno un'ora dopo, dei ragazzi vengono seguiti da questa auto, su un sentiero di ghiaia. Spaventati cambiano strada e fuggono.

    Alle 23.10, David Arthur Faraday e Betty Lou Jensen non avranno la stessa accortezza. Usciti di casa con la scusa di andare a un concerto natalizio, i due si sono appartati in una radura, per amoreggiare sull'auto. Passa un'ora, poi qualcuno comincia a fare fuoco contro di loro con una calibro 22. Comincia da dietro, sfondando il vetro posteriore e forando il pneumatico sinistro. Poi l'assassino si avvicina, fino ad arrivare alla portiera di sinistra, e ricomincia a fare fuoco.
    I due adolescenti, 16 e 17 anni, corrono fuori dalla portiera opposta e tentano la fuga, ma invano. Betty Lou Jensen verrà ritrovata a 10 metri dal paraurti posteriore. Uccisa da cinque colpi alla schiena, tra la quinta e la sesta costola. Per David Faraday è bastata una sola pallottola, ben piazzata alla testa.

    Stella Borges, unica testimone, dirà di aver visto allontanarsi una Chevrolet metalizzata, a quattro porte, diretta verso Benicia, prima di ritrovare i corpi dei giovani.

    Nonostante la taglia messa dalla polizia sull'omicida, non verrà mai trovato il colpevole.

    Sei mesi più tardi, verso le 24:00 di sabato 5 luglio 1969, Darlene Elizabeth Ferrin, 22 anni, e Michael Renault Mageau, 19 anni, vengono presi di mira da degli spari, mentre sono seduti nella propria macchina nel parcheggio del Blue Rock Springs Golf Course.

    Darlene Ferrin è andata a prendere il suo amico un'ora prima, quindi si sono fermati lì per mangiare qualcosa e chiacchierare. Qui una macchina marrone, si è accostata a loro, spegnendo i fari, per poi ripartire a tutto gas verso Vallejo. Cinque minuti dopo la macchina ritorna.

    Dopo aver parcheggiato a 3 metri dall'auto dei ragazzi, il conducente scende, spegnendo i fari per nascondere il proprio viso. Convinti che si tratti di un poliziotto, i ragazzi estraggono i loro documenti e si preparano alla classica ramanzina, ma il misterioso individuo comincia a sparare attraverso il finestrino del passeggero. L'arma è una 9mm con silenziatore.
    Mageau viene colpito di striscio al viso e al braccio, quindi al ginocchio. Alimentato dal dolore e dall'adrenalina, il ragazzo riesce a saltare nella parte posteriore e a nascondersi. Darlene invece non ce la fa: i colpi la raggiungono alla testa e alla schiena, morirà alle 24.38.

    Prima di svenire, Mageau riesce a vedere l'assassino di profilo. Lo descriverà come un uomo di media altezza, circa 1.75, e grasso. A occhio e croce sui 90kg. Porta degli occhiali.

    Secondo i più, Darlene conosceva l'omicida, forse si trattava di uno spasimante rifiutato. La descrizione del ragazzo invece non fu tenuta molto in considerazione, poiché era sotto antidolorifici.

    Alle 12:40 della stessa notte, la sede centrale della polizia di Vallejo riceve una telefonata da una cabina. La voce è matura e senza accento, parla uniformemente e costantemente, come se stesse leggendo da un copione.

    "Vorrei riportare alla vostra attenzione un duplice omicidio. Dirigetevi a un miglio est sul Viale di Cristoforo Colombo, verso il parco pubblico, lì troverete dei ragazzi in una macchina marrone. Gli ho sparato con una Luger da 9mm. Ho ucciso dei ragazzi anche l'anno scorso. Buona serata."

    Il 31 luglio 1969, l'Examiner di San Francisco, il Chronicle di San Francisco, e il Time-Harald di Vallejo ricevono tre lettere. Allegato a ogni lettera c'è un crittogramma che il 1 agosto viene pubblicato sulla prima pagina di ognuno dei tre giornali. Le lettere sono simili, anche se con parole diverse. L'assassino dimostra di essere veramente il colpevole fornendo particolari che solo lui e la polizia potevano sapere. Aggiunge inoltre che ha già ucciso una dozzina di persone e che se non venissero pubblicato i crittogrammi farà un massacro.

    "In questo crittogramma in tre parti è celata la mia identità"

    Ogni lettera finisce con un simbolo molto simile a una croce celtica e uno strano simbolo cifrato che è probabilmente il vero arcano da svelare per risalire all'identità del killer.

    Il crittogramma viene decifrato e risolto in meno di una settimana, da un professore di liceo e da sua moglie, ma evidentemente l'assassino non ha mantenuto la promessa. Il testo che emerge infatti non è la sua identità, bensì la confessione di un collezionista di anime: "Mi piace uccidere le persone perché è molto più divertente di ogni gioco selvaggio che si possa fare in una foresta. L'uomo è l'animale più pericoloso ed elettrizzante di tutti da uccidere […] La parte migliore è che quando morirò, rinascerò in paradiso e tutte le mie vittime saranno miei schiavi. Perciò non vi darò il mio nome o tenterete di fermare la mia raccolta di schiavi per la vita ultraterrena. Ebeorietemethhpiti."

    Il 4 agosto l'Examiner di San Francisco riceve un'altra lettera. In essa il killer sbeffeggia gli investigatori perché non riescono a risolvere il simbolo cifrato, racconta nuovamente con accuratezza l'attentato ai due ragazzi, spiegando anche come fa a sparare con sicurezza al buio. Per la prima volta si firma "Zodiac". Tutte le lettere verranno analizzate per anni, senza rintracciare impronte utili.

    Il 27 settembre 1969, sulla spiaggia occidentale del Lago Berryessa, 60 miglia a nord est da San Francisco, lo Zodiac Killer torna a colpire.

    Sono le 15.00 mentre tre giovani donne da Angwin, stanno parcheggiando nell'area adibita vicino al lago. Una Chevrolet azzurra si accosta a loro, all'interno c'è un uomo che sembra intento a leggere qualcosa e le ragazze non ci danno conto.

    L'uomo è alto circa 1.80, sui 90kg, occhialuto, indossa una maglia nera e blu su dei pantaloni neri. Le donne si allontanano e camminano lungo la riva del lago, prendendo il sole. Quando si accorgono che l'uomo le osserva silenziosamente, fumando sigarette, si preoccupano un po'. Passano 20 minuti così, quando l'uomo finalmente si allontana.

    Lo stesso uomo viene avvistato da un dentista e suo figlio.

    Di tutt'altra maniera l'incontro tra l'uomo misterioso e Cecilia Ann Shepard e Bryan Calvin Hartnell, due studenti universitari.

    Poco prima di essere troppo vicino alla coppia, l'assassino si butta addosso una tunica nera, con dei fori per gli occhi. Sulla vita è disegnato il solito stemma molto simile a una croce celtica.

    Alla cintura è appeso un pugnale, mentre nella mano destra l'uomo impugna saldamente una pistola.

    Si presenta come un evaso dalla prigione di Deer Lodge, nel Montana, ed esige l'auto dei ragazzi per scappare nel Messico. La parlata è incredibilmente monotona e calma, senza cadenze o accenti.
    Bryan Hartnell con freddezza, sperando di arrivare a una soluzione pacifica e senza danni, prova a rilassare il pazzo e i due finiscono per discutere a lungo, seduti sulla vettura dei ragazzi. All'improvviso però l'assassino perde le staffe senza motivo apparente. Lega Cecilia e comincia a colpire la coppia con il suo coltello, probabilmente estratto da una baionetta.
    Sei pugnalate per Bryan Hartnell, dieci per Cecilia Shepard. Il ragazzo si riprenderà e riuscirà a depositare per la polizia, ma la ragazza morirà nel giro di 48 ore.

    Prima di andarsene, lo Zodiac Killer impugna un gessetto nero, di quelli che si utilizzano nei riti magici, e scrive sulla portiera della macchina: "Vallejo 12-20-68, 7-4-69, Sept 27-69-6:30. Con un coltello."

    Anche questa volta la polizia di Vallejo riceve una telefonata, dalla stessa cabina. Non è passata nemmeno un'ora dall'aggressione.

    "Vorrei segnalare un assassinio, no, un duplice omicidio. I corpi sono a due miglia a nord della sede centrale del parco. Erano in una Volkswagen bianca. Sono stato io."

    11 ottobre 1969. A cadere vittima dello Zodiac Killer è un tassista 39enne di San Francisco, Paul Stine. È appena finita la corsa. Il passeggero si è fatto portare dall'angolo tra la Mason e Geary Street all'angolo tra la Washington e Maple Streets, presso Presidio Heigths. E qui, invece di pagare, estrae una pistola da 9mm e spara alla testa di Stine.

    Prima di lasciare la scena del delitto, strappa un pezzo di camicia insanguinata dalla schiena del tassista e poi sparisce nella notte.
    La descrizione fornita dei testimoni è sempre la stessa, anche se inizialmente dei ragazzini si sbagliano: indicano alle pattuglie un uomo di colore, e così la fuga a piedi dello Zodiac Killer è fin troppo facile.

    Sul luogo del delitto vengono rintracciate le solite impronte che non porteranno mai a nessuno.

    Nei giorni successivi arrivano alla stampa le solite lettere nelle quali lo Zodiac Killer si assume la responsabilità dell'omicidio. L'indirizzo del mittente c'è, ma è rappresentato dall'ormai immancabile croce celtica. Per smentire le solite voci che non si tratterebbe di lettere autentiche, lo Zodiac Killer allega al messaggio un pezzo della camicia insanguinata del tassista. Un pezzo per volta.

    Nel finale delle lettere l'assassino si vanta di aver spiazzato gli investigatori, avendo cambiato all'improvviso la tipologia delle vittime, insinuando che potrebbe rubare un pulmino della scuola e uccidere tutti i bambini che ci sono sopra.

    Inutile aggiungere che a queste dichiarazioni seguirà il panico. Tutti i casi insoluti della costa ovest saranno imputati allo Zodiac Killer. Da Houston ad Atlanta, fino ad arrivare a St. Louis. Si rafforzano i controlli alle uscite delle scuole e gli autisti dei pulmini vengono armati.

    Seguono altre lettere, una delle quali ha un contenuto seriamente minaccioso:
    "È Zodiac che vi parla. Dalla fine di ottobre ho ucciso 7 persone. Sono piuttosto arrabbiato con la polizia che dice un sacco di bugie sul mio conto, quindi cambierò continuamenteil metodo di raccolta degli schiavi. Non lo annuncerò più a nessuno, quando commetterò degli omicidi, questi vi sembreranno furti, uccisioni di rabbia o futili incidenti.. […] La polizia non mi prenderà mai perché sono più intelligente di loro: 1) l'identikit che gira corrisponde a me solo quando vado a caccia di anime, il resto del tempo sono completamente diverso. 2) Non possono avere le mie impronte come dicono perché io indosso delle coperture sulle dita, sono di cemento per aeroplani. 3) Tutte le mie armi sono state comprate per corrispondenza da paesi stranieri e non potete rintracciarmi. […] La sera dell'omicidio del tassista ero al parco, dei poliziotti si sono fermati per chiedermi se avessi visto qualcuno di sospetto.." La lettera termina con una delirante descrizione di una arma potentissima, in grado di far saltare in aria un autobus, che l'assassino avrebbe costruito con le sue mani e che terrebbe in cantina.

    La lettera successiva raggiunge l'avvocato Melvin Belli il 27 dicembre 1969. È allegata a una cartolina di auguri natalizi. Il killer sembra inspiegabilmente lucido e invoca addirittura aiuto. Pentito della minaccia di attentato all'autobus di bambini, chiede aiuto a Belli perché teme di perdere nuovamente il controllo e di ricominciare a uccidere. "Per piacere mi aiuti, non manterrò il controllo ancora a lungo."
    Purtroppo non contatterà più Belli in seguito, facendo perdere le proprie tracce per più di tre mesi.

    Domenica 22 marzo 1970. È sera, ma da poco tempo. La 23enne Kathleen Johns sta guidando sulla Highway 132, nella Contea di San Joaquin. In auto con lei c'è la figlioletta Jennifer.
    Una macchina si avvicina a lei, l'autista suona il clacson, le fa gesti e le urla che ha una ruota a terra e si propone volontariamente di aiutarla a cambiarla.
    L'uomo in realtà rimuove solamente i bulloni e così, quando Kathleen si rimette in marcia, la ruota si leva del tutto. Dispiaciuto per il nuovo incidente, lo sconosciuto le offre un passaggio fino alla prossima stazione di servizio.
    Il viaggio dura a lungo, nella direzione di Modesto (California), tuttavia il gentile sconosciuto pare non volersi fermare a nessuna stazione di servizio.

    Kathleen capisce che è in pericolo e, agguantata la figlioletta, salta giù dalla vettura. Si nascondono tra le ombre, nell'argine prosciugato di un fiumiciattolo per l'irrigazione dei campi. Il killer prova a cercarle per circa dieci minuti, aiutandosi con i fari dell'auto e una torcia, ma alla fine abbandona l'impresa e scompare nella notte.

    Raggiunta la stazione di polizia di Patterson, Kathleen si siede su una sedia, pronta a raccontare allo sceriffo la propria brutta avventura e per sporgere denuncia. Alle spalle dell'uomo c'è un tabellone con gli identikit di tutti i ricercati e, proprio tra questi, la donna riconosce il colpevole. L'identikit indicato da Kathleen Johns è quello dello Zodiac Killer.

    Tra l'aprile 1970 e il marzo 1971, lo Zodiac Killer inviò almeno nove lettere, ma da esse la polizia non è riuscita a risalire a nessun ulteriore crimine. Né è riuscita a rintracciare l'omicida.


    Il 27 ottobre 1970, il reporter del Chronicle Paul Avery (che si stava occupando del caso Zodiac) ricevette una cartolina di Halloween firmata con una lettera "Z" e con il simbolo di Zodiac già usato in precedenza. Scritta a mano sulla cartolina c'era l'annotazione "Peek-a-boo, you are doomed" (Bubu-settete, sei condannato). La minaccia venne presa sul serio ed ebbe un articolo in prima pagina sul Chronicle. Poco dopo, Avery ricevette una lettera anonima che lo metteva in guardia sulle somiglianze tra le attività di Zodiac e l'omicidio irrisolto di Cheri Jo Bates, che era avvenuto quattro anni prima al college di Riverside, California, nell'area di Los Angeles, più di 640 km a sud di San Francisco. Avery riportò le sue scoperte sul Chronicle del 16 novembre 1970.

    Il 30 ottobre 1966, la Bates trascorse la serata nell'edificio della biblioteca del campus fino alla sua chiusura alle 21. I vicini riportarono di aver udito un grido intorno alle 22:30. La ragazza fu trovata morta la mattina seguente a poca distanza dalla biblioteca, tra due case abbandonate in lista per essere demolite per ristrutturazione del campus. I fili della calotta dello spinterogeno della sua Volkswagen erano stati strappati. Era stata brutalmente picchiata e pugnalata a morte. Un orologio da uomo della Timex con il cinturino strappato fu ritrovato nelle vicinanze. L'orologio aveva le lancette ferme alle 00:24, ma è probabile che l'attacco fosse avvenuto molto prima; furono inoltre scoperte orme di una scarpa simile a quelle militari.

    Un mese dopo, il 29 novembre 1966, delle lettere quasi identiche battute a macchina furono spedite alla polizia di Riverside e alla redazione del giornale Riverside Press-Enterprise. Intitolando la lettera "The Confession" (La Confessione), l'autore rivendicò l'omicidio della Bates, fornendo dettagli del crimine non diffusi al pubblico, e avvisando che la Bates "non è la prima e non sarà l'ultima".

    Nel dicembre del 1966 venne ritrovata una poesia intagliata sul lato inferiore di una scrivania nella biblioteca del Riverside City College. Il linguaggio e la grafia della poesia, intitolata "Sick of living/unwilling to die" (Disgustato dalla vita/non disposto a morire), assomigliavano a quelli delle precedenti lettere di Zodiac: essa fu firmata con ciò che si presumono essere le iniziali "rh". Sherwood Morrill, il principale esaminatore di documenti della California, consultato in seguito, affermò che secondo lui la poesia era stata scritta da Zodiac.

    Il 30 aprile 1967 — a sei mesi esatti dall'omicidio della Bates — il padre della ragazza, Joseph, il Press-Enterprise e la polizia di Riverside ricevettero tutti lettere quasi identiche: con una scrittura scarabocchiata, le copie inviate al Press-Enterprise e alla polizia recitavano "Bates had to die there will be more" ("Bates doveva morire ce ne saranno ancora"), con un piccolo scarabocchio sul fondo che assomigliava alla lettera "Z". La copia inviata a Joseph Bates recitava "She had to die there will be more" ("Lei doveva morire ce ne saranno ancora") senza la "firma" con la Z.

    Il 13 marzo 1971, quasi quattro mesi dopo il primo articolo di Paul Avery sul caso Bates, Zodiac inviò una lettera al Los Angeles Times: in essa attribuì alla polizia, invece che ad Avery, la scoperta delle sue "attività" di Riverside, ma, aggiunse, "they are only finding the easy ones, there are a hell of a lot more down there" ("hanno trovato solo le più facili, ce ne sono maledettamente di più laggiù").

    La connessione tra Cheri Jo Bates, Riverside e Zodiac rimane incerta. Il Dipartimento di Polizia di Riverside sostiene che l'omicidio della Bates non è stato commesso da Zodiac, ma ammette che alcune delle lettere su di lei possono essere state scritte da lui per farsi attribuire, a torto, il "merito".

    Il 30 gennaio 1974, un giornale di San Francisco ricevette la prima lettera autentica in quasi tre anni. Poche parole senza senso, la firma riportava le misteriose notazioni "Me-37" e "SFPD-0"mentre 1/3 della pagina era occupato da un'enorme croce celtica, vicino alla quale compariva la dicitura "=3".

    Nel 1975, Don Striepke, uno sceriffo della Contea di Sonoma stilò un rapporto con una teoria interessante. Segnando su di una mappa una serie di 40 assassini insoluti degli Stati Occidentali, si andava a formare una gigantesca Z. Questa teoria però cadrà ben presto nel dimenticatoio, poiché nella stessa zona e negli stessi anni operava anche Ted Bundy.

    Il 24 aprile 1978 è stata consegnata alla stampa la 21esima lettera dello Zodiac Killer. La lettera debutta con un inquietante "sono tornato" che ha sparso il terrore tra gli abitati della Bay Area. Nessun crimine è stato rintracciato nella zona prima o dopo la lettera e ad essa sono seguite lettere senza senso, che lodavano il lavoro della polizia. Dopo accurate analisi si è scoperto che l'autore di queste lettere sarebbe proprio Dave Toschi, ufficiale di polizia e a capo delle indagini sullo Zodiac Killer.


    Sebbene molte persone, nel corso degli anni, siano state sospettate di essere Zodiac, solo su una, Arthur Leigh Allen (18 dicembre 1933 - 26 agosto 1992), la polizia indagò seriamente. Nel luglio 1971 un amico di Allen riferì i suoi sospetti su di lui al Dipartimento di Polizia di Manhattan Beach, California, e il rapporto venne immediatamente inoltrato al San Francisco Police Department. Interrogato, Allen affermò, senza esserne stato sollecitato, che i coltelli insanguinati collocati nella sua auto il giorno dell'attacco di Zodiac al Lago Berryessa gli erano serviti per uccidere dei polli; quando gli fu chiesto se avesse letto La preda più pericolosa, da cui era stata ripresa l'idea dell'uomo come "animale più pericoloso da cacciare", rispose di sì e che gli aveva fatto una grande impressione.

    Allen fu l'unico sospettato contro cui la polizia ebbe abbastanza prove a carico per eseguire non uno ma tre mandati di perquisizione: il 14 settembre 1972, il 14 febbraio 1991 e il 28 agosto 1992, due giorni dopo la sua morte. Allen negò sempre tutto, ma contro di lui c'era un gran numero di prove circostanziali.

    La polizia però non trovò mai prove certe del fatto che Allen fosse il Killer dello Zodiaco, e il Dipartimento di Polizia di Vallejo decise di non incriminarlo, sebbene egli fosse già stato condannato per reati sessuali e nella sua casa, nella perquisizione del 1991, fossero stati trovati armi ed esplosivo. Infine, la calligrafia di Allen non corrispondeva a quella in cui erano vergati i messaggi di Zodiac, le sue impronte non corrispondevano a quelle sospettate di essere di Zodiac e nessuna prova concreta di un suo coinvolgimento negli omicidi fu mai trovata: recenti test del DNA, nel 2002, su sospette lettere di Zodiac non diedero risultati positivi. Tuttavia, né Vallejo né San Francisco esclusero mai Allen dalla lista dei sospetti anche dopo i risultati dei test.
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    21 agosto 1968 (mercoledì): L'omicidio di Antonio Lo Bianco e Barbara Locci, Signa

    La notte del 21 agosto 1968, all'interno di una Alfa Romeo Giulietta bianca posteggiata presso una strada sterrata vicino al cimitero di Signa, vengono assassinati Antonio Lo Bianco, muratore siciliano di 29 anni, sposato e padre di tre figli, e Barbara Locci, casalinga di 32 anni, di origini sarde. I due erano amanti; la donna era sposata con Stefano Mele, un manovale sardo emigrato in Toscana alcuni anni prima. Al momento dell'aggressione, intorno alla mezzanotte, i due sono intenti in preliminari amorosi. Sul sedile posteriore dorme Natalino Mele, di 6 anni, figlio di Barbara Locci e Stefano Mele. L'assassino si avvicina all'auto ferma ed esplode complessivamente otto colpi da distanza ravvicinata: quattro colpiscono la donna e quattro l'uomo. Verranno repertati cinque bossoli di cartucce calibro.22 Long Rifle Winchester con la lettera "H" punzonata sul fondello.
    Intorno alle 2:00 del mattino del 22 agosto, il piccolo Natale "Natalino" Mele suona alla porta di un casolare sito in via del Vingone 154, ad oltre 2 chilometri di distanza da dove è parcheggiata l'automobile del Lo Bianco. Il proprietario, sveglio per via del figlio malato che ha chiesto dell'acqua, si affaccia immediatamente alla finestra, e davanti alla porta vede il bambino che scorgendolo a sua volta gli dice: "Aprimi la porta perché ho sonno, ed ho il babbo ammalato a letto. Dopo mi accompagni a casa perché c'è la mi' mamma e lo zio che sono morti in macchina." Dopo averlo soccorso, l'uomo chiede a Natalino cosa sia successo: il piccolo stentatamente riferisce altri particolari sul suo arrivo fin lì: "Era buio, tutte le piante si muovevano, non c'era nessuno. Avevo tanta paura. Per farmi coraggio ho detto le preghiere, ho cominciato a cantare "La Tramontana"... La mamma è morta, è morto anche lo zio. Il babbo è a casa malato."
    I Carabinieri, chiamati mezz'ora dopo dal signor De Felice, il padrone di casa, si mettono alla ricerca dell'auto portandosi dietro il piccolo Mele. Intorno alle 3:00 del mattino l'auto viene ritrovata grazie anche all'indicatore di direzione lampeggiante, nella stradina che si trova su via di Castelletti, a 100 metri dal bivio per Comeana, in una zona abitualmente frequentata da coppie in cerca di intimità.
    Le indagini conducono al marito della donna, Stefano Mele, quarantanovenne manovale originario di Fordongianus all'epoca in provincia di Cagliari, ora di Oristano, che si sospetta possa aver commesso il delitto per gelosia. Questo elemento è tuttavia reso piuttosto inverosimile dal fatto che lo stesso Stefano Mele aveva più volte in passato esternato un temperamento decisamente succube nei confronti della moglie (che era soprannominata in paese Ape regina a causa dei suoi molteplici amanti), giungendo persino ad ospitare in casa sua per diverso tempo un suo amico ed amante della moglie, tale Salvatore Vinci, da taluni indicato come il vero padre del piccolo Natalino. I pettegolezzi del paese insinuavano persino che l'uomo, al mattino, portasse il caffè a letto agli amanti della donna e che accondiscendesse ad avere rapporti sessuali con alcuni di loro, incluso lo stesso Vinci.
    Il 23 agosto, dopo 12 ore di interrogatorio, e dopo aver negato inizialmente un suo coinvolgimento ed aver gettato sospetti sui vari amanti della moglie, arriva a confessare il delitto. Durante il sopralluogo effettuato quello stesso giorno, l'uomo risulta totalmente incapace di maneggiare un'arma, e confonde il finestrino dal cui esterno partirono i colpi; tuttavia, dimostrò di conoscere tre particolari che poteva sapere solo avendo assistito alla scena del delitto, ossia il numero di colpi sparati (8), l'indicatore di direzione ancora acceso della vettura del Lo Bianco e la mancanza della scarpa sinistra dal piede dello stesso Lo Bianco dopo poche ore Mele ritratta in parte la confessione, e coinvolge come complice Salvatore Vinci. Lo accusa di avergli fornito l'arma e di essere stato da lui accompagnato in auto fino alla stradina di Castelletti. Dopo aver sparato, il Mele dichiara di aver gettato la pistola nel canale che corre lungo il cimitero, ma malgrado le ricerche l'arma non verrà mai ritrovata. Nonostante il Vinci abbia portato un alibi confermato da due testimoni, il pomeriggio del 24 agosto i due uomini vengono messi a confronto. L'incontro però dura molto poco, perché dopo le prime battute Stefano Mele ritratta ancora e scagiona Salvatore. Non passa mezz'ora che Mele fornisce una nuova versione; questa volta al posto di Salvatore Vinci c'è il di lui fratello Francesco, anch'egli amante della Locci e, a detta di Mele, assai geloso della donna. Francesco Vinci per un certo periodo aveva addirittura convissuto con la Locci a casa di quest'ultima, e per questo veniva denunciato dalla propria moglie per abbandono del tetto coniugale e concubinato. Il giorno successivo, accortosi che la nuova accusa non era sostenuta da riscontri, Stefano punta il dito contro un terzo amante della moglie, tal Carmelo Cutrona; dichiara che il pomeriggio prima del delitto, recatosi a casa sua in cerca di Barbara, vi trova lì presente il Lo Bianco (che Mele conosceva col nome di Enrico) e per questo motivo se ne va via molto turbato.
    I magistrati intanto stanno nuovamente sentendo il piccolo Natalino Mele, che dopo aver sostenuto per giorni di non aver sentito, né visto nulla, adesso ammette di aver visto al suo risveglio il padre, e che questo lo avrebbe preso sulle spalle portandolo fino alla casa del Vingone dopo avergli fatto promettere di non dire nulla. È a questo punto che Mele cede confermando la versione del figlio, scagionando le altre persone accusate fino a quel momento. Nonostante le molte incongruenze e l'assenza dell'arma, nel marzo del 1970 Stefano Mele viene condannato dal tribunale di Perugia in via definitiva alla pena di 14 anni di reclusione. La pena è piuttosto mite perché l'uomo viene riconosciuto parzialmente incapace di intendere e di volere. Gli vengono inoltre inflitti 2 anni di reclusione per calunnia contro i fratelli Vinci.

    Durante il processo a Stefano Mele, Giuseppe Barranca, cognato di Antonio Lo Bianco, collega di lavoro di Mele ed anch'egli amante della Locci, raccontò che la donna, pochissimi giorni prima del delitto, si era rifiutata di uscire con lui dichiarando che "potrebbero spararci mentre siamo in macchina" e, in un'altra occasione, gli aveva raccontato che c'era un tale che la seguiva in motorino. Una deposizione analoga fu resa da Francesco Vinci, che parlò di un uomo in motorino che avrebbe pedinato la Locci durante i suoi appuntamenti con gli amanti.



    14 settembre 1974 (sabato): L'omicidio di Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini, Borgo San Lorenzo

    Il 14 settembre 1974 ha luogo il primo duplice omicidio di apparente natura maniacale; Pasquale Gentilcore di 19 anni, impiegato alla Fondiaria Assicurazioni, e Stefania Pettini, 18 anni, segretaria d'azienda presso un magazzino di Firenze ed attivista del Partito Comunista Italiano, vengono uccisi in una strada sterrata nella frazione di Rabatta, vicino a Borgo San Lorenzo. I due si frequentavano da circa due anni ed erano in procinto di annunciare il loro fidanzamento ufficiale.
    Pasquale Gentilcore, dopo aver accompagnato la sorella Cristina alla discoteca Teen Club di Borgo San Lorenzo, promettendole di tornare a prenderla al più tardi per la mezzanotte, raggiunge la fidanzata a Pesciola di Vicchio, presso l'abitazione di lei. Da lì, verso le 22:00, i due giovani ripartono per raggiungere gli amici che li aspettano in quello stesso locale per proseguire la serata. Durante il tragitto decidono però di appartarsi in un tratturo sulle sponde della Sieve, da loro già conosciuto e normalmente frequentato dalle coppiette della zona.
    Intorno alle 23:45 (orario appurato sulla base di una testimonianza che ode dei colpi a quell'ora) qualcuno spunta forse dall'attiguo vitigno e comincia ad aprire il fuoco. Pasquale Gentilcore, seduto al posto di guida, viene raggiunto da cinque colpi esplosi da una Beretta calibro.22 Long Rifle, la stessa utilizzata nel delitto del 1968; i colpi mortali arrivano dal lato sinistro della 127. La ragazza viene raggiunta da tre colpi che tuttavia non la uccidono; viene trascinata fuori dall'auto ancora viva, resa del tutto incapace di fuggire a causa delle profonde ferite alle gambe provocate dai tre proiettili, e uccisa con tre coltellate profonde allo sterno.Dopo averne disteso il corpo dietro l'auto, l'assassino continua a colpirla per altre 96 volte, colpendo anche il seno ed il pube. Successivamente l'omicida penetra la vagina della ragazza con un tralcio di vite; particolare questo che, anni dopo, farà pensare ad un possibile movente esoterico, ma che altri più semplicemente interpretano come un ulteriore oltraggio da parte dell'assassino al corpo della vittima; considerato infatti che il luogo del delitto era sito in prossimità di alcune piante di vite, è molto probabile che il gesto non fosse premeditato.
    Le sevizie sul corpo di Stefania furono tanto violente da causare, in sede processuale, lo svenimento di un Carabiniere durante l'udienza in cui venivano mostrate le foto del corpo della ragazza. Prima di lasciare il luogo l'omicida colpisce con il coltello anche il corpo esanime di Pasquale con 5 coltellate all'altezza del fegato. Il mattino successivo, i familiari dei due ragazzi, allarmati per il mancato rientro dei figli, si recano a sporgere denuncia di scomparsa presso la stazione dei Carabinieri di Borgo San Lorenzo, ove vengono informati immediatamente del delitto, scoperto un'ora prima da un contadino che abitava e lavorava da quelle parti. In questo caso, così come nei delitti successivi, vengono ritrovati, sparsi sul terreno, gli oggetti contenuti nella borsetta della ragazza (particolare questo che si ripeterà costante in tutti gli omicidi). La borsa ed il reggiseno della Pettini verranno invece ritrovati sul far della sera in un luogo poco distante in seguito ad una telefonata anonima, mentre il portafogli della ragazza, il suo orologio ed alcuni monili di modesto valore a lei appartenenti non saranno più rinvenuti.
    Il pomeriggio prima di essere uccisa, la Pettini aveva confidato ad un'amica di aver fatto uno "strano incontro" con una persona poco piacevole che l'aveva turbata, ma non ebbe tempo di approfondire il fatto. Un amico della Pettini, titolare della scuola guida dove la ragazza stava conseguendo la patente, raccontò ai carabinieri di un pedinamento da parte di uno sconosciuto in auto durante una lezione di guida, il venerdì sera prima del delitto. In ogni caso la Pettini non fu la sola, tra le vittime femminili del maniaco, ad aver lamentato molestie da parte di ignoti poco prima dei delitti. Gli inquirenti esaminarono anche il diario della ragazza ma senza trovarvi alcun'annotazione insolita. Qualche anno dopo i quotidiani tornarono a parlare del caso dopo che la tomba di Stefania (sepolta assieme al fidanzato, nel cimitero di Borgo San Lorenzo) fu manomessa e danneggiata da ignoti.


    6 giugno 1981 (sabato): L'omicidio di Giovanni Foggi e Carmela De Nuccio, Scandicci

    Il primo dei due duplici omicidi del 1981 viene commesso nella notte tra il 6 ed il 7 giugno nei pressi di Mosciano di Scandicci. Le vittime sono Giovanni Foggi, 30 anni, dipendente dell'Enel, e la sua ragazza, Carmela De Nuccio, pellettiera di 21 anni. I due si conoscevano da pochi mesi ma avevano già programmato di sposarsi. La sera del delitto, un sabato, cenano a casa dei genitori di Carmela, poi, verso le 22:00, escono per una passeggiata e si appartano con l'auto, una Fiat Ritmo color rame, in una stradina sterrata sulle colline di Roveta, non lontano dalla discoteca Anastasia, e in una zona frequentata abitualmente da coppiette e guardoni.

    Giovanni viene raggiunto da tre colpi di pistola esplosi attraverso il finestrino anteriore sinistro, mentre altri cinque proiettili colpiscono Carmela. In fase di sopralluogo verranno però rinvenuti solo cinque bossoli su otto, un particolare, quello dei bossoli mancanti, che si ripresenterà ancora nel 1983, nel 1984, e che già si era verificato nel 1968 e nel 1974. La ragazza viene tirata fuori dalla macchina e trascinata in fondo al terrapieno rialzato su cui corre la stradina, dove le verranno recisi i jeans e, per mezzo di tre precisi fendenti, le verrà asportato interamente il pube. Anche in quest'occasione l'omicida, presumibilmente prima di lasciare il luogo del delitto, colpisce con il coltello il corpo esanime del ragazzo.

    I corpi dei due giovani saranno rinvenuti il mattino dopo. L'uomo è ancora a bordo dell'auto, come nel delitto del 1974. Anche in questa occasione le armi usate sono la Beretta calibro.22 ed un coltello. Anche in questo caso si verifica l'accanimento sui cadaveri, soprattutto su quello della donna. Ma le analogie non sono finite, perché stranamente, proprio come a Borgo, la borsetta della ragazza viene rovistata e il contenuto gettato a terra senza che però questa volta risulti mancare nulla. Per il delitto viene inizialmente sospettato l'ex fidanzato della De Nuccio, che in passato aveva avuto screzi con lei, ma il giovane risultò avere un alibi inattaccabile.




    L'arresto di Vincenzo Spalletti

    Nelle fasi successive al delitto del giugno 1981 entra in scena Vincenzo Spalletti, trentenne, sposato e padre di tre figli. Spalletti era, ai tempi, un autista di autoambulanze presso la Misericordia di Montelupo Fiorentino. Tuttavia era conosciuto in famiglia e presso la Taverna del Diavolo, un ristorante della zona, per essere anche un guardone. Il fenomeno del voyeurismo era peraltro in quei tempi marcatamente diffuso nella provincia fiorentina. La domenica mattina seguente al duplice delitto, rientrato all'alba dopo aver trascorso la serata fuori con un amico guardone, racconterà alla moglie e ad alcuni avventori di un bar da lui frequentato, di aver visto "due morti ammazzati"; racconterà inoltre particolari inerenti al delitto (in particolare la mutilazione inflitta alla ragazza) che però non erano ancora stati divulgati dagli organi di stampa e dai mass media.

    In seguito alle indagini alcune persone testimoniarono di aver visto la sua auto nei pressi del luogo del delitto nella notte del 6 giugno. Spalletti viene quindi arrestato; durante l'interrogatorio afferma di aver letto la notizia sui giornali, cosa impossibile in quanto i giornali che riportavano il fatto non erano stati pubblicati prima di lunedì e, inoltre, mente sull'orario di rientro a casa per la notte del delitto. Viene quindi accusato di falsa testimonianza e incarcerato, ma col sospetto che l'assassino possa essere proprio lui.

    Mentre Spalletti si trovava in carcere sua moglie e suo fratello ricevettero diverse telefonate anonime, in cui veniva loro assicurato che il loro congiunto sarebbe stato presto scagionato, cosa che in effetti accadrà nell'ottobre dello stesso anno a seguito di un nuovo duplice delitto che scagionerà completamente Spalletti. Un conoscente dello Spalletti, anch'egli noto come guardone, sentito dagli inquirenti, asserì di essere stato fermato nei boschi, all'incirca all'epoca del delitto, da un tizio con una divisa che non aveva saputo identificare. L'uomo in divisa gli avrebbe rivolto velate minacce, rimbrottandolo aspramente e mostrandogli - a suo dire - una pistola.

    Proprio pochi mesi dopo l'incarcerazione di Spalletti, mentre l'uomo si trovava ancora in prigione, avviene, il 22 ottobre 1981, il delitto del mostro di Firenze a Calenzano. Ciò farà dissolvere i sospetti su Spalletti riguardo gli omicidi seriali; pochi giorni dopo, Spalletti verrà scarcerato.




    22 ottobre 1981 (giovedì): L'omicidio di Stefano Baldi e Susanna Cambi, Calenzano

    Il 23 ottobre 1981, a soli quattro mesi di distanza dal precedente omicidio, a Travalle di Calenzano vicino a Prato, in località Le Bartoline, lungo una strada sterrata che attraversa un campo, a poca distanza da un casolare abbandonato, vengono uccisi Stefano Baldi, di 26 anni, operaio tessile di Calenzano e Susanna Cambi, commessa di 24 anni. I due giovani, che avrebbero dovuto sposarsi entro pochi mesi, avevano cenato a casa di Stefano la sera prima quindi erano usciti a bordo dell'auto del giovane, una Golf nera, e non avevano più fatto ritorno. Alcuni amici del ragazzo riferirono che il Baldi inizialmente intendeva restare con loro, guardando una partita di calcio ma poi aveva cambiato idea decidendo di trascorrere la serata (vigilia di uno sciopero generale) con la fidanzata. La Cambi viene raggiunta e uccisa da cinque colpi, il ragazzo viene invece colpito quattro volte. Le cartucce sono di marca Winchester con la lettera "H" sul fondello, sparate dalla stessa Beretta calibro.22 Long Rifle, di cui saranno repertati solo 7 bossoli dei 9 complessivi che si sarebbero dovuti effettivamente rinvenire.

    In questo caso l'omicida, per raggiungere la ragazza e compiere l'escissione del pube, è costretto ad estrarre dall'auto anche il corpo di Stefano. Il corpo della ragazza verrà trovato ad una decina di metri dall'auto, in un canaletto, con la maglia sollevata fino al collo. Il seno sinistro presenta gravi ferite inferte con arma bianca. Anche in questo caso verranno ritrovati gli oggetti contenuti nella borsetta della vittima femminile sparsi nelle zone circostanti il luogo del delitto. Il corpo di Susanna Cambi presenta ferite da arma da taglio, almeno quattro, di cui tre alla schiena.

    Il giorno successivo al delitto, prima del rinvenimento dei corpi, un uomo telefonò alla zia di Susanna chiedendo di parlare con la madre della giovane che, in effetti, in quel periodo era ospite con le due figlie presso la sorella. La voce all'altro capo del telefono è stata descritta dalla zia della Cambi come "chiara, distinta e priva di inflessioni dialettali". A causa di un guasto sulla linea tuttavia, la comunicazione venne interrotta subito. Si tratta di un particolare decisamente misterioso considerato che il numero di telefono, appartenente ad un indirizzo nuovo, era provvisorio e quindi nessuno avrebbe dovuto conoscerlo. Secondo quanto sostenuto dall'avvocato Nino Filastò, inoltre, poco prima del delitto Susanna Cambi avrebbe fatto capire alla madre di essere pedinata da qualcuno. In una circostanza, mentre guidava l'auto in compagnia della madre, aveva rischiato di provocare un incidente spiegandole che "un tale, il solito" la stava seguendo e che era sua intenzione evitare di incontrarlo.




    19 giugno 1982 (sabato): L'omicidio di Paolo Mainardi e Antonella Migliorini, Baccaiano

    La notte del 19 giugno 1982, a Baccaiano di Montespertoli vengono uccisi Paolo Mainardi, meccanico di 22 anni, e Antonella Migliorini di 19, dipendente di una ditta di confezioni. I due giovani, fidanzati da molti anni e soprannominati dagli amici Vinavil perché inseparabili, erano appartati a bordo di una piccola Fiat 147, in uno slargo presente sulla Strada Provinciale Virginio Nuova dopo aver trascorso la serata a cena con dei parenti. Nelle ultime settimane, Antonella aveva confidato ad amiche e colleghe di aver paura del maniaco delle coppiette (il termine "mostro di Firenze" non era stato ancora coniato) e che avrebbe evitato di appartarsi in luoghi isolati col fidanzato.

    L'assassino sopraggiunge favorito dall'oscurità ed esplode alcuni colpi verso la coppia; Paolo viene solo ferito e riesce a mettere in moto l'auto e a inserire la retromarcia. Tuttavia, probabilmente a causa della concitazione del momento, Paolo non è in grado di controllare l'auto che attraversa trasversalmente la strada e resta poi bloccata nella proda sul lato opposto. A questo punto l'assassino spara contro i fari anteriori dell'auto e colpisce a morte i due giovani. Secondo la versione tuttora condivisa dai più e ammessa al processo, l'assassino in seguito sfilerà le chiavi dal quadro d'accensione della vettura e le getterà lontano, presumibilmente in segno di spregio. Esiste in verità un'altra ipotesi che stando alla testimonianza del Sig. Allegranti (l'addetto del pronto soccorso della Misericordia che per primo estrasse il corpo dei ragazzi dall'auto) il ragazzo Paolo Mainardi si trovasse anch'egli, come la ragazza, posizionato nel sedile posteriore della Fiat 147. Da qui l'ipotesi che non fu il ragazzo a spostare l'auto e a finire incastrato nel fossetto bensì invece l'aggressore stesso, a seguito del concitato tentativo di allontanarsi quanto prima dal luogo dell'omicidio. In ogni caso, la corporatura robusta di entrambi i giovani (il Mainardi era alto quasi due metri) avrebbe reso difficile all'assassino estrarli dall'auto rapidamente, soprattutto in una zona come quella dove avvenne il delitto.

    Questo delitto si differenzia dai precedenti per almeno due motivi; innanzitutto il luogo in cui avviene l'aggressione non è appartato; a pochi chilometri di distanza, nel paese di Cerbaia è in corso la festa del Santo patrono, e il traffico di auto lungo la strada provinciale è ridotto ma costante. In secondo luogo l'omicida, per la prima volta, non esegue le escissioni dei feticci e non ha il tempo materiale per infierire sui cadaveri, probabilmente a causa dei rischi che questa operazione avrebbe comportato, considerato che la macchina era visibilmente disposta in modo innaturale sulla strada.

    Il delitto sarà infatti scoperto pochissimo dopo da una vettura sopraggiunta nel frattempo. Antonella è morta, Paolo respira ancora e viene immediatamente trasportato al vicino ospedale di Empoli, dove muore il mattino seguente senza riprendere coscienza. Sul luogo del delitto verranno messi a reperto nove bossoli di calibro.22 Winchester sempre con la lettera "H" punzonata sul fondello. In quest'occasione il giudice Silvia Della Monica, sperando di indurre il mostro in errore, convocò in Procura i cronisti che si occupavano del caso e chiese loro di scrivere sui giornali che Paolo Mainardi, prima di morire, aveva rivelato importanti informazioni utili alla ricostruzione dell'identità dell'omicida, ma tale trucco non portò ad alcun risultato positivo.

    Sarà inoltre a seguito di questo delitto che il maresciallo Fiori, 15 anni prima in servizio a Signa, ricorderà del delitto avvenuto nell'estate del 1968, e permetterà la riapertura del fascicolo in cui verranno ritrovati i bossoli repertati quell'anno; sarà così possibile comparare i bossoli e stabilire che a sparare nel 1968 era stata la stessa arma utilizzata nel 1982. Anche questo evento non è privo di dettagli inconsueti in quanto, per legge, gli elementi raccolti nel corso di un processo devono essere distrutti a sentenza avvenuta. Va tuttavia rilevato che la pratica non è generalmente seguita nel caso in cui l'arma del delitto non sia stata ritrovata, per l'ovvia necessità di lasciare il campo a successive verifiche, cosa che si è in effetti verificata con i bossoli repertati a Signa nel 1968. Mario Spezi nel suo libro Dolci colline di sangue dà una versione un po' differente riguardo al collegamento dei delitti del mostro con quello del 1968 a Signa.

    In pratica Spezi dice che arrivò agli inquirenti una lettera anonima che conteneva un ritaglio di giornale relativo al delitto del 1968 con un messaggio aggiunto a penna che recitava: Perché non andate a rivedere il processo di Perugia contro Stefano Mele? (Il fascicolo processuale di Stefano Mele era effettivamente presso il tribunale di Perugia). Nel fascicolo si trovarono stranamente i famosi bossoli calibro. 22 serie H in una busta spillata che permisero agli inquirenti di mettere in relazione i delitti del 1968 con i successivi del 1974, 1981 e 1982.




    Francesco Vinci

    Successivamente al delitto del giugno 1982, che aveva portato gli inquirenti a collegare alla serie di delitti maniacali anche quello avvenuto 14 anni prima a Signa, in maniera inequivocabile grazie ai bossoli sparati dalla medesima pistola, le indagini si rivolgeranno verso Francesco Vinci, pastore, pluripregiudicato, residente a Montelupo Fiorentino, già chiamato in causa anni prima da Stefano Mele nell'omicidio del 1968 per il quale lo stesso Mele stava in quegli anni scontando la pena a 13 anni. Vinci era stato a suo tempo amante fisso della Locci (come il fratello Salvatore) e aveva addirittura abbandonato la famiglia per vivere con la donna, rimediando per questo una denuncia, da parte della moglie, per abbandono del tetto coniugale e concubinato (reato allora ancora punibile in Italia, così come del resto l'adulterio), fatto questo che aveva destato un certo scandalo in paese.

    Il Vinci viene pertanto posto in stato di fermo con l'imputazione di maltrattamenti al coniuge, in modo da poter approfondire alcuni aspetti e raccogliere ulteriori prove per indiziarlo dei delitti del Mostro di Firenze. Tuttavia Francesco Vinci si trovava ancora in carcere al momento in cui avviene un nuovo duplice omicidio, quello del 1983. Scagionato da tale circostanza, e dalla successiva nuova testimonianza di Stefano Mele, Vinci resta in carcere per tre anni a causa di una condanna per furto di camion, ma viene completamente scagionato dalle accuse per gli omicidi.

    Francesco Vinci fu trovato assassinato il 7 agosto 1993 insieme a un amico, tal Angelo Vargiu, in una pineta nei pressi di Chianni. I loro corpi, incaprettati, erano stati rinchiusi nel bagagliaio di una Volvo data alle fiamme. Si ipotizzò un collegamento con la vicenda del "mostro", ipotesi però quasi subito scartata; più probabilmente, date anche le modalità del delitto, era da ritenersi una vendetta nata in ambienti malavitosi sardi attorno ai quali pare che Vinci gravitasse. Il caso è rimasto sostanzialmente insoluto.




    9 settembre 1983 (venerdì): L'omicidio di Horst Wilhelm Meyer e Jens-Uwe Rüsch, Giogoli

    Il 9 settembre 1983, a Giogoli, vengono assassinati due turisti tedeschi, Jens-Uwe Rüsch e Horst Wilhelm Meyer, entrambi di 24 anni, studenti presso l'Università di Münster che al momento dell'aggressione si trovano a bordo del loro furgone Volkswagen T1 con l'autoradio accesa. I ragazzi vengono raggiunti e uccisi da sette proiettili, sparati con una certa precisione attraverso la carrozzeria del furgone, ma verranno messi a referto solo 4 bossoli sui 7 che si sarebbero dovuti effettivamente rinvenire. Le indagini successive al delitto permetteranno di stabilire che i colpi erano stati sparati da un'altezza di circa un metro e 30 centimetri da terra, il che fa supporre che l'assassino fosse alto almeno 1 metro e 80, o anche di più. L'ipotesi dell'altezza del mostro superiore alla media non è però condivisa da tutti, in primis da Perugini e da altri inquirenti.

    L'assassino fredda dapprima Meyer con tre colpi in rapidissima successione, mentre Rüsch tenta inutilmente la fuga ma viene poi colpito anch'esso da quattro proiettili, di cui uno al cervello, accasciandosi sul fondo dell'automezzo. Una volta uccisi i due giovani, l'assassino sale sul retro del furgone ma, accortosi che le vittime sono entrambe di sesso maschile, si dilegua senza utilizzare armi bianche ed effettuare alcuna escissione sui corpi. In questo caso, l'assassino è stato forse tratto in errore dai capelli lunghi e dalla corporatura esile di Rüsch, scambiato evidentemente per una donna. Il denaro e le macchine fotografiche delle vittime non vennero prelevate, né sembrarono mancare oggetti di valore. Nelle vicinanze del camper furono rinvenute anche alcune riviste pornografiche a contenuto probabilmente omosessuale, ma non è mai stato appurato se appartenessero ai giovani, né se i due fossero effettivamente fidanzati oppure solamente amici.




    29 luglio 1984 (domenica): L'omicidio di Claudio Stefanacci e Pia Rontini, Vicchio

    Le vittime del penultimo delitto del Mostro di Firenze sono Claudio Stefanacci, studente universitario di 21 anni e Pia Gilda Rontini di 18 anni, da poco tempo impiegata presso il bar della stazione ferroviaria di Vicchio e majorette nella banda musicale del paese. L'auto dei giovani, una Fiat Panda celeste, è parcheggiata in fondo a una strada sterrata che si diparte dalla Strada Provinciale Sagginalese, contro il terrapieno di una collina. Quando vengono aggrediti, i due ragazzi sono seminudi sul sedile posteriore della Panda di proprietà del ragazzo. L'omicida spara attraverso il vetro della portiera destra colpendo il ragazzo quattro volte (di cui una alla testa), e due volte la ragazza (colpita al volto e al braccio che aveva probabilmente steso di fronte alla faccia come estremo gesto di difesa).
    In seguito l'assassino infierisce con diverse coltellate sui corpi dei due ragazzi, colpendo due volte alla gola Pia e una decina di volte Claudio. Pia viene trascinata, ancora viva anche se ormai in agonia, fuori dalla vettura in un vicino campo di erba medica, dove le vengono asportati il pube e il seno sinistro. Verrà ritrovata con il proprio reggiseno ancora serrato tra le dita della mano destra.
    La catenina che portava è stata strappata ed è stato sottratto il pendente a forma di croce. In questo caso la borsetta non è stata frugata né manomessa, presumibilmente perché nascosta sotto il sedile del passeggero.

    I cadaveri vengono scoperti prima dell'alba da alcuni amici della coppia, ma l'allarme per la scomparsa dei due era stato dato già verso le 23 circa dalla madre della Rontini, preoccupata per l'insolito ritardo della figlia che al momento di uscire di casa, poco dopo le 21, aveva promesso di rientrare entro un'ora essendo stanca per aver lavorato tutto il giorno.
    Anche in questo caso pare che la vittima femminile avesse subito molestie da parte di ignoti nei giorni precedenti al delitto. Un'amica di Pia, conosciuta durante un soggiorno di studio in Danimarca e che in seguito aveva intrattenuto con lei relazioni di corrispondenza, riferì tempo dopo di aver ricevuto una telefonata dalla giovane, pochissimo tempo prima del delitto, in cui Pia le riferiva che nel bar dove lavorava "c'erano persone poco piacevoli assieme alle quali si sentiva molto insicura.
    Tale fatto sembra peraltro avvalorato da un riscontro raccolto in una fase successiva al delitto; il Sig. Bardazzi gestore di una tavola calda in località San Piero a Sieve aveva dichiarato di riconoscere nei due fidanzatini uccisi una coppia che nel pomeriggio del 29 luglio 1984, poche ore prima dell'omicidio, si era intrattenuta presso il suo locale. Subito dopo loro, secondo il teste, era arrivato un "signore distinto", alto, corpulento, sguardo intenso, in giacca e cravatta, dai capelli rossicci, che aveva ordinato una birra e si era seduto all'esterno del locale, senza staccare gli occhi dalla ragazza. Non appena i giovani avevano terminato di mangiare e si erano avvicinati alla cassa, l'uomo aveva bevuto d'un fiato la birra e si era accodato a loro. Invitato a partecipare ai funerali delle vittime, tuttavia, non riconobbe il "signore distinto" tra i presenti.
    Nel processo a Pacciani il teste Bardazzi venne ascoltato dal PM Canessa che mise in luce alcune incongruenze nella sua testimonianza; dando per scontata la sincera volontà di collaborare da parte del Sig. Bardazzi non venne però considerata credibile la sua testimonianza in quanto non coincidevano innanzitutto i tempi di spostamento della coppia dei ragazzi rispetto al tragitto casa-locale Bardazzi-luogo di lavoro di Pia Rontini e in più lo stesso Bardazzi non si dimostrò così certo al processo di riconoscere i ragazzi e la loro auto parcheggiata davanti al locale. Nel marzo del 1994 le croci piantate sul luogo del delitto dal padre di Pia Rontini in memoria dei due giovani assassinati sono state danneggiate da ignoti. Il padre di Pia, Renzo Rontini, si è impegnato profondamente per la ricerca della verità sul caso fino alla sua morte, avvenuta per un attacco cardiaco alla fine degli anni novanta.




    8 settembre 1985 (domenica): L'omicidio di Jean-Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot, Scopeti

    L'ultimo duplice delitto (quello su cui si hanno più particolari e riscontri) avviene nella campagna di San Casciano Val di Pesa in frazione Scopeti, all'interno di una piazzola attorniata da cipressi, attigua ad un cimitero, in cui erano solite appartarsi le giovani coppie. Le vittime sono due giovani francesi, Jean-Michel Kraveichvili, musicista venticinquenne, e la trentaseienne Nadine Mauriot, commerciante, madre di due bambine piccole recentemente separata dal marito, entrambi provenienti da Audincourt.
    Le vittime sono accampate in una piccola tenda ad igloo a poca distanza dalla strada. L'omicidio è stato fatto risalire da taluni alla notte di domenica 8 settembre 1985, da altri a quella tra sabato 7 settembre e domenica 8 settembre 1985, considerazione motivata con la presenza sui cadaveri delle vittime di larve di mosca che necessitano di almeno 25 ore di tempo per svilupparsi e col fatto che Nadine Mauriot aveva avvertito i parenti in Francia che sarebbe rientrata dalla vacanza al più tardi domenica sera per accompagnare a scuola le figlie il giorno successivo e riaprire il negozio di sua proprietà. Una coppia che si era appartata nella piazzola del delitto nelle prime ore del pomeriggio di domenica 8 settembre 1985 riferì di aver notato la tenda delle vittime all'interno della quale sembrava esservi una persona distesa; riferirono anche di un nugolo di mosche e di cattivo odore nella zona, tanto che proprio per tali motivi i due ragazzi decisero di andarsene da quel luogo.
    Le modalità dell'aggressione sono simili a quelle precedentemente messe in pratica dall'omicida, eccettuato il fatto che in questo caso, le vittime non si trovavano in auto ma in una tenda piantata vicino alla propria Volkswagen Golf: il mostro, dopo aver forse reciso con un coltello il telo esterno della tenda sulla parte posteriore, si sposta verso l'ingresso della tenda e spara. Nadine muore all'istante, il giovane Jean-Michel, ferito non mortalmente, riesce ad uscire dalla tenda e a fuggire di corsa in direzione del bosco, ma viene raggiunto dall'omicida che lo finisce a coltellate e poi ne occulta il corpo, cercando di nasconderlo tra alcuni rifiuti poco distante dalla tenda.
    Dopo averlo estratto dalla tenda per effettuare le mutilazioni sul pube e sul seno sinistro, anche il cadavere della donna viene in qualche modo occultato e risistemato all'interno della tenda in modo che non sia subito visibile. Il modus operandi particolare attuato dall'omicida in quest'ultimo delitto lascia presupporre che l'assassino avesse l'intento di ritardare il più possibile la scoperta dei corpi. Un brandello del seno della ragazza viene spedito alla Procura della Repubblica di Firenze in una busta anonima con l'indirizzo composto da lettere di giornali ritagliate, indirizzato alla dottoressa Silvia Della Monica, PM incaricato delle indagini sul mostro. La scoperta dei corpi avverrà, per puro caso, due ore prima che la lettera giunga in Procura vanificando così il possibile perfido piano dell'omicida che probabilmente voleva annunciare agli inquirenti l'avvenuto ultimo duplice delitto attraverso la sua stessa macabra missiva.
    Poche settimane dopo il delitto, il 2 ottobre, giunsero in Procura tre buste anonime indirizzate ai tre sostituti procuratori Pier Luigi Vigna, Paolo Canessa e Francesco Fleury. Le tre buste contenevano la fotocopia di un articolo ritagliato dalla Nazione, una cartuccia marca Winchester calibro 22 serie "H", e un foglietto di carta bianco piegato in due con scritto: Uno a testa vi basta. Gli esami biologici evidenziarono che sui lembi delle tre buste c'erano tracce di saliva che diedero esito positivo di appartenenza a soggetto con gruppo sanguigno A. Non esiste però alcuna certezza che questo messaggio del 2 ottobre sia stato inviato dal mostro, poiché esso non conteneva alcuna "firma", cioè un qualcosa (come, per esempio, poteva essere un bossolo col segno di percussione della calibro 22 oppure una parte del corpo di una vittima) che sanciva la mano del mostro invece di quella di un "burlone" o mitomane. Il brandello di seno spedito a Silvia Della Monica rimane, infatti, l'unico "messaggio" inequivocabilmente inviato dal mostro agli inquirenti.




    Pietro Pacciani e i ''compagni di merende''

    Dopo l'omicidio degli Scopeti (l'ultimo della serie) le indagini proseguono intensamente ma, fino al 1991, non ci sono sviluppi significativi. La SAM (Squadra Anti-Mostro), il pool di forze dell'ordine che indagava solo ed esclusivamente sugli omicidi seriali delle colline fiorentine dal 1984, era capeggiata da Ruggero Perugini. Pietro Pacciani diventò il sospettato numero uno della SAM nel 1991, mentre questi si trovava in carcere per la condanna di stupro nei confronti delle sue due figlie; anche una lettera anonima risalente al 1985 invitava gli inquirenti ad indagare su di lui. Il pool di Perugini, oltre alla lettera anonima, aveva il nome di Pacciani schedato nel computer fra le molte persone aventi le caratteristiche per essere il mostro.
    Nato ad Ampinana il 7 gennaio 1925, ex partigiano soprannominato il Vampa per via del suo carattere irascibile e per i suoi trascorsi giovanili come mangiafuoco per le fiere paesane (che una volta gli costarono persino un'ustione al viso), Pacciani era un uomo collerico, depravato e brutale indipendentemente dalle accuse riguardanti i delitti del mostro. Nel 1951, a 26 anni, Pacciani sorprese l'allora fidanzata, Miranda Bugli (appena quindicenne), in atteggiamenti intimi con un altro uomo, tale Severino Bonini di 41 anni; preso dalla gelosia, uccise a coltellate il rivale costringendo poi la ragazza ad avere un rapporto sessuale proprio accanto al cadavere. Arrestato e processato, dichiarerà d'essere stato accecato dal furore avendo visto la fidanzata denudarsi il seno sinistro (lo stesso che negli ultimi due delitti venne asportato alle vittime femminili del pluriomicida). Per questo omicidio Pietro Pacciani viene condannato a 13 anni di carcere che sconta interamente. La storia fece scalpore in Toscana, tanto da essere raccontata dai cantastorie. L'analogia di questo delitto con quelli del "mostro" sarà l'intuizione e l'indizio principe che porterà gli inquirenti ad indagare seriamente su Pacciani.
    Gli inquirenti si convincono, accumulando suggestioni/indizi, che Pacciani sia il serial killer delle coppiette fiorentine con questa tesi: Pacciani ucciderebbe le coppie per rivivere, da "vincitore", il delitto del 1951; accanenendosi quindi particolarmente sulla donna che simboleggia l'ex-fidanzata che l'ha tradito. Gli indizi che accumularono gli inquirenti erano vari: Pacciani scriveva la parola Repubblica con una sola B (come scritto nella busta col lembo di seno inviata dal mostro nel 1985), possedeva giornali e riviste che parlavano dei delitti del mostro e foto con pubi segnati a matita ed aveva scritto su un foglio un numero di targa di un'auto appartenente ad una coppia che si appartava nella zona degli Scopeti, luogo del delitto del settembre 1985. Una parte della "componente indiziaria" era anche di tipo territoriale-logistico. Pacciani aveva legami (più o meno espliciti o più o meno opinabili e forzati) con tutti i luoghi dove avvennero gli otto duplici omicidi del mostro. Il contadino aveva vissuto e lavorato nelle due aree geografiche dove il mostro aveva colpito più spesso: il Mugello e la Val di Pesa. Ma aveva un ipotetico legame anche con Signa (poiché nel 1968 vi risiedeva l'ex-fidanzata Miranda Bugli, che in seguito visse anche a Scandicci), e Calenzano (poiché là viveva l'amico compagno di merende Giovanni Faggi). Tuttavia, ciò che poteva avere teoricamente valenza probatoria, erano soltanto tre oggetti detenuti da Pacciani: una cartuccia trovata in giardino (se realmente fosse stata inserita nell'arma del mostro), un blocco da disegno e un portasapone (se realmente fossero appartenuti alle vittime del mostro del 1983).
    Il Vampa era un agricoltore sessualmente perverso (celebre l'episodio di quando, nel 1976, andò al Pronto Soccorso per farsi togliere un vibromassaggiatore dall'orifizio anale), e violento, anche dopo l'omicidio del 1951, non soltanto nei confronti della famiglia, come quando prese a calci e colpi di pala un guardiacaccia che finì ricoverato per 26 giorni in ospedale. Pacciani, oltre a definirsi totalmente estraneo ai fatti di sangue del mostro, voleva dare di sé anche l'immagine dell'agnelluccio e del lavoratore della terra agricola (come lui stesso amava definirsi), cioè l'immagine della persona buona e semplice, nonostante che al suo paese tutti lo conoscessero invece come un uomo assai violento, prepotente e litigioso e tanti suoi compaesani avevano molta paura di lui. L'opinione pubblica fu sostanzialmente divisa in due sulla sua colpevolezza riguardo i delitti del mostro. Ciò che è biograficamente certo, al di là delle varie teorie sull'identità del mostro, è che Pietro Pacciani era un personaggio tanto primitivo quanto particolare: bugiardo cronico, poeta e pittore autodidatta per hobby, cimentatosi in mille mestieri. La sua indole violenta si riversò negli anni sulla moglie, Angiolina Manni, una donna semi-inferma di mente (bastonata e costretta a rapporti sessuali), e sulle loro due figlie, Rosanna e Graziella, tenute segregate in casa, nutrite con cibo per cani, picchiate, violentate con falli artificiali e zucchine, costrette a visionare foto pornografiche del padre ripresosi in pose oscene; le due figlie se ne andarono di casa non appena diventarono maggiorenni, rompendo definitivamente i rapporti con il padre, e poco dopo aver lasciato l'abitazione, lo denunciarono per stupro (accusa per cui Pacciani è stato condannato in via definitiva, restando in carcere dal 1986 al 1992).

    Pacciani viene arrestato con l'accusa di essere l'omicida delle otto coppie di giovani il 17 gennaio 1993. Il 19 aprile 1994, con il collegio difensivo composto dagli avvocati Piero Fioravanti e Rosario Bevacqua, inizia il processo di primo grado, presieduto dal dottor Enrico Ognibene, con l'accusa rappresentata dal sostituto procuratore Paolo Canessa (in vece di Pier Luigi Vigna), processo che rivela anche le atroci violenze familiari commesse dal contadino (compresi i ripetuti stupri nei confronti delle sue due figlie, per i quali era già stato condannato ed aveva già scontato la pena), e che si conclude il 1º novembre 1994 con la condanna dell'imputato all'ergastolo da parte del tribunale di Firenze con l'accusa di essere il responsabile di quattordici dei sedici omicidi per cui era imputato (venne infatti ritenuto non colpevole del duplice omicidio del 1968). Il verdetto si ribalterà però quindici mesi più tardi, nel secondo grado di giudizio. Infatti, il 13 febbraio 1996 Pacciani (in carcere da 1.100 giorni), nel cui collegio difensivo si era nel frattempo aggiunto anche il famoso avvocato Nino Marazzita, è assolto dalla Corte d'appello di Firenze per non aver commesso il fatto e viene dunque scarcerato.

    Il magistrato presidente della corte d'assise d'appello, Francesco Ferri, critica aspramente l'impianto accusatorio contro Pacciani (mettendo poi, nero su bianco, tutte le critiche all'indagine in un libro); l'assoluzione viene chiesta anche dal Pubblico Ministero del processo d'appello, Piero Tony. Successivamente però, il 12 dicembre 1996, la Cassazione annulla l'assoluzione e dispone un nuovo processo d'appello, che Pacciani non potrà subire a causa della sua improvvisa morte, avvenuta il 22 febbraio 1998. Il processo d'appello a carico di Pacciani fu giudicato viziato da un errore tecnico, che non consentì di sentire e verbalizzare le testimonianze di quattro persone (i testi Alfa, Beta, Gamma e Delta), tra i quali c'era anche Lotti, che pochi mesi dopo si autoaccuserà di alcuni degli omicidi come complice di Vanni e Pacciani.

    Solo a metà degli anni novanta, con l'arrivo a capo della Squadra Mobile di Firenze di Michele Giuttari le indagini si concentrarono più dettagliatamente, anche su alcuni amici di Pacciani coinvolti nella vicenda: Mario Vanni, Giancarlo Lotti, Fernando Pucci e Giovanni Faggi (quest'ultimo assolto, in tutti e tre i gradi di giudizio, da ogni accusa riguardante gli omicidi). Un altro agricoltore della zona, tale Giorgio Rea, venne in principio sottoposto a sospetto da parte degli inquirenti, per via dell'amicizia decennale che lo legava ai vari Pacciani, Vanni, Lotti, Pucci e Faggi, ma i sospetti caddero quasi subito nel corso di pochi giorni.
    A seguito dell'assoluzione di Pacciani nel processo d'appello, Angiolina Manni decise di abbandonare la casa coniugale, non volendo più avere nessun rapporto con l'uomo, tant'è che nel luglio dello stesso anno avviò anche le pratiche per la separazione dal marito. Angiolina Manni è morta nel 2005 all'età di 80 anni. Nel dicembre del 1996, Pacciani viene rinviato a giudizio per sequestro e maltrattamenti ai danni della moglie. In particolare gli inquirenti addebitavano a Pacciani di aver aggredito la moglie nel 1992, al ritorno della stessa da un interrogatorio durante il quale la signora avrebbe rilasciato dichiarazioni compromettenti per il marito a causa del possesso di un fucile mai denunciato, anche se si trattava di un'arma che non era sicuramente quella usata per uccidere le coppiette. La reazione di Pacciani fu registrata e ascoltata in diretta dalla polizia che aveva apposto alcune microspie nella casa del contadino.

    Come detto, il 22 febbraio 1998, proprio alla vigilia dell'inizio del secondo processo d'appello a suo carico, Pietro Pacciani viene trovato morto nella sua abitazione di Mercatale con i pantaloni abbassati e il maglione tirato in alto fino al collo. Un esame tossicologico rivela nel sangue tracce di un farmaco antiasmatico fortemente controindicato per lui (che non soffriva di asma ed era invece affetto da una malattia cardiaca). Le circostanze sospette dell'improvvisa morte del contadino provocarono ulteriori ombre sulla vicenda che sembrava essersi avviata ad una conclusione definitiva. Pacciani infatti, dopo la sentenza di assoluzione di secondo grado, era tornato ad abitare da solo (dopo che anche la moglie aveva abbandonato l'abitazione coniugale) nel suo casolare, dove la sera era solito barricarsi in casa, sprangando la porta e tutte le serrande, quasi avesse timore di qualcosa o di qualcuno (così come confermato dalle testimonianze dei vicini). La sera in cui i carabinieri lo trovarono morto nella sua abitazione, la porta e le finestre erano invece completamente spalancate.




    Il "secondo livello" e i presunti mandanti

    Le indagini sui delitti del mostro e sui compagni di merende hanno successivamente condotto gli inquirenti ad ipotizzare l'esistenza di una sorta di sovrastruttura mandante dei delitti. Tale ipotesi si basa su alcune dichiarazioni del teste e imputato Giancarlo Lotti, il quale ha dichiarato in sede processuale che i feticci escissi dai corpi femminili sarebbero stati comprati da un ignoto "dottore", e sul ritrovamento di un possibile simbolo esoterico, una piramide tronca di granito colorato (una rara varietà di una pregevole pietra ornamentale, nota come breccia africana) di circa quindici centimetri, rinvenuta ad alcuni metri dai corpi esanimi dei ragazzi uccisi in occasione del delitto dell'ottobre 1981.Occorre però ricordare che tale oggetto viene spesso usato come fermaporte nelle campagne toscane.

    Altri presunti riscontri di un possibile movente magico-esoterico si sono avuti in occasione dell'ultimo delitto della serie, quello del 1985 a danno dei due turisti francesi; pochi giorni prima di essere assassinati i due si erano accampati in zona Calenzano ma erano stati invitati ad andarsene da un guardacaccia, in quanto il campeggio libero non era consentito in quella zona. In seguito lo stesso guardacaccia aveva rinvenuto, poco distante dal luogo in cui Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichvili si erano accampati la prima volta, tre cerchi di pietre, di cui due aperti ed uno chiuso, contenenti bacche, pelli di animali bruciate e croci di legno. Secondo il parere di alcuni inquirenti tali cerchi di pietre potrebbero essere ricondotti a pratiche di tipo rituale, da collegarsi con le fasi di individuazione, condanna a morte ed esecuzione materiale della coppia.

    Tuttavia l'episodio del guardiacaccia è stato recentemente smentito dall'avvocato dei familiari delle vittime francesi, che a tal proposito ha diffuso anche un documento Pdf liberamente consultabile. Infatti non risulterebbe la presenza dei due a Calenzano dagli scontrini che la coppia era solita conservare durante i viaggi; inoltre tutti i possibili avvistamenti della coppia francese meritano una riflessione e il beneficio del dubbio. Questo è dovuto al fatto che la foto della vittima francese che finì sui giornali (cioè quella del passaporto della vittima), mostrava la donna più giovane e con i capelli cortissimi, mentre nel settembre '85 Nadine aveva i capelli lunghi e qualche anno in più. Ciò è stato anche documentato in un programma televisivo.

    Le frequentazioni di Pacciani e Vanni durante gli anni degli omicidi alimentarono un filone d'inchiesta su possibili moventi esoterici e riti legati al satanismo alla base dei delitti. In particolare Pacciani e Vanni frequentavano un tale Salvatore Indovino, di professione mago e cartomante, presso una cascina situata nelle campagne di San Casciano, dove, a detta di molti, si consumavano orge e riti collegabili all'occultismo. Durante le perquisizioni eseguite dalla Polizia di Stato a casa di Pacciani sono stati trovati almeno tre libri ricollegabili alla magia nera e al satanismo.
    La cosiddetta pista esoterica si riallaccia anche alle grosse somme di denaro delle quali Pacciani entrò in possesso negli anni dei delitti, da qui nasce l'idea che i Compagni di Merende agissero per conto di personalità rimaste nell'ombra e interessate a ricavare «feticci» dai corpi mutilati. Pacciani, modesto agricoltore, arrivò addirittura a disporre di 157 milioni di lire (corrispondenti ad oltre mezzo milione di euro attuali) in contanti e buoni postali fruttiferi, oltre ad aver acquistato un'automobile, due case e ristrutturato completamente la sua abitazione.




    Possibili collegamenti con il caso Narducci

    Ulteriore tesi è quella che vede il responsabile dei delitti (o uno dei capi della misteriosa «setta» che avrebbe commissionato gli omicidi seriali) nel dottor Francesco Narducci, medico e professore universitario di Perugia, morto nel Lago Trasimeno a 36 anni, il 13 ottobre 1985, poche settimane dopo l'ultimo degli omicidi del Mostro di Firenze. La morte, all'epoca, fu archiviata come incidente e la salma fu tumulata senza procedere ad autopsia, apparendo abbastanza chiara la causa di morte per annegamento.

    Il coinvolgimento di Narducci, appartenente ad una delle famiglie perugine più in vista, si fonda inizialmente sull'intercettazione telefonica di un gruppo di pregiudicati che avrebbero minacciato una tale «Dora» di farle «fare la stessa fine del "medico ucciso sul Trasimeno"», velato riferimento alla morte dello stesso Narducci, rinvenuto cadavere al largo dell'isola Polvese, e sulla base di alcune lettere anonime ricevute dagli investigatori nei mesi successivi, nelle quali veniva collegato il medico agli omicidi.

    In seguito furono intercettate altre telefonate minacciose rivolte a «Dora»: in una di queste una voce femminile (molto alterata) faceva riferimento, oltre al presunto omicidio di Narducci, anche all'«omicidio di Pacciani». Secondo la voce al telefono, entrambi gli omicidi sarebbero stati commessi dagli appartenenti ad una «setta satanica», perché le vittime sarebbero state colpevoli di averli traditi: la stessa fine, nella telefonata, era minacciata anche a «Dora».
    Il procedimento per le telefonate intercettate proseguì e portò ad una condanna patteggiata, mentre per i restanti imputati il processo è ormai prossimo alla discussione. Dichiarazioni di persone informate sui fatti e anomalie negli accertamenti sul cadavere ripescato dalle acque del Lago Trasimeno portarono ad ipotizzare che il Narducci fosse stato assassinato. Nel 2002 venne riesumata la salma, sulla quale esami autoptici dimostrarono la presenza di lesioni compatibili, secondo il Consulente Prof. Giovanni Pierucci dell'Università di Pavia, con lo strozzamento; ipotesi avvalorata anche dal rinvenimento di tracce di narcotizzanti nei tessuti.

    Proprio l'ipotizzato omicidio del medico perugino, legato alla sostituzione del suo cadavere con quello di uno sconosciuto in maniera tale da insabbiare le indagini sulle effettive cause della morte nell'autunno del 1985, ha dato luogo all'avvio di un'inchiesta giudiziaria da parte della Procura della Repubblica di Perugia che ha ipotizzato il coinvolgimento di una loggia massonica, alla quale risultava appartenere il padre di Narducci, coinvolta sia nella copertura degli omicidi del mostro che nella sostituzione del cadavere. Secondo Ugo Narducci invece, il figlio Francesco si tolse volontariamente la vita a seguito di diagnosi mediche che gli attribuivano un grave problema di salute.
    All'epoca, però, la versione ufficiale, propugnata dalla famiglia, era quella della disgrazia e, del resto, nessuna conferma ha avuto la nuova versione della famiglia Narducci sul suicidio motivato dalla scoperta di una malattia. Nel giugno del 2009, una parte dell'inchiesta relativa alle modalità della morte del medico perugino è stata archiviata dal GIP del capoluogo umbro.
    Per quanto riguarda la morte per omicidio di Francesco Narducci, il GIP (Dott.ssa Marina de Robertis), nel procedimento n. 1845/08/21, ha disposto l'archiviazione.
    Comunque, bisogna sottolineare che il GIP, nell'ordinanza con cui ha disposto l'archiviazione per insufficienza di prove ,ha accolto e confermato i risultati delle indagini svolte dalla Procura di Perugia, stabilendo altresì che il Narducci era stato ucciso, che il cadavere ripescato il 13 ottobre 1985 non poteva essere quello del medico ma quello di uno sconosciuto, che il Narducci era morto in circostanze di tempo e di luogo completamente diverse tra loro e che non era annegato. Sempre secondo il GIP, il Narducci era risultato coinvolto negli ambienti nei quali erano maturati i delitti.
    Per quanto riguarda, invece, la gran parte dei reati «minori», tra i quali quelli di soppressione e occultamento di cadavere ed uso illegittimo e soppressione di svariati documenti, il GIP ha riconosciuto la maturata prescrizione in relazione agli indagati principali.

    In particolare il GIP De Robertis, nell'ordinanza con cui ha accolto la richiesta di archiviazione per insufficienza di prove, ha affermato che «l'ipotesi del suicidio o dell'evento accidentale è sconfessata dagli elementi emergenti dalle consulenze tecniche». Inoltre nella stessa ordinanza, con riferimento allo scambio del cadavere di Narducci con quello di uno sconosciuto, ha affermato che le testimonianze hanno trovato conferma nelle consulenze di natura antropometrica, «tutte concordi sul punto essenziale: il cadavere dell'uomo di Sant'Arcangelo non poteva appartenere al Narducci» e che «gli interrogativi sulla morte e sull'identità dello sconosciuto rimangono». Riguardo ai collegamenti con i delitti fiorentini, «numerose sono le dichiarazioni di persone informate che hanno riconosciuto il Narducci come frequentatore dell'ambiente legato ai delitti.»

    Un altro filone dell'inchiesta, relativo alla ipotizzata associazione per delinquere e a reati più recenti (posti in essere da vari soggetti istituzionali e dalla famiglia, oltre che da giornalisti e finalizzati a nasconderne l'omicidio e le sue cause e a sostituire il cadavere e comunque a depistare le indagini attraverso la riabilitazione di piste ormai sconfessate a livello giudiziario, come quella della cosiddetta "pista sarda") è stato aperto dalla Procura della Repubblica di Perugia. In particolare si contestava, come s'è detto, a membri della famiglia di Narducci e a vari esponenti delle istituzioni, il reato di associazione per delinquere finalizzata all'occultamento di cadavere e altri reati. I soggetti, secondo l'accusa, avrebbero occultato le reali modalità della morte di Narducci, sostituendo a tal fine il suo cadavere con quello di uno sconosciuto. Inoltre avrebbero impedito l'autopsia sul cadavere, assolutamente di regola in casi simili di sospetto annegamento: l'autopsia non fu eseguita all'epoca, ma soltanto dopo la riapertura delle indagini da parte della Procura di Perugia. Va sottolineato che all'epoca non furono neppure scattate foto del cadavere e le uniche utilizzate nelle indagini erano state effettuate da un fotoreporter del quotidiano "La Nazione". Il tutto sarebbe stato fatto, secondo la Procura, per evitare che emergesse il coinvolgimento del medico nella vicenda criminale fiorentina.




    Francesco Calamandrei, il farmacista

    Nella primavera del 1988 Mariella Ciulli, ex moglie di Francesco Calamandrei, farmacista di San Casciano, si recò dai carabinieri e riferì che alcuni anni prima, quando era ancora sposata con l'uomo, aveva trovato in casa una pistola, precisamente una Beretta calibro 22, e nel frigorifero alcuni macabri feticci, a sua detta provenienti dalle vittime femminili del Mostro di Firenze. Subito i carabinieri effettuarono una perquisizione in casa del Calamandrei, senza però trovare nulla di insolito.
    Il 21 marzo 1991, la donna si presentò nuovamente dai carabinieri per fornire nuove informazioni. Secondo quanto dichiarato, Mariella Ciulli, la notte del 21 agosto 1968, si trovava in auto, assieme al marito, nelle vicinanze di Castelletti di Signa (teatro del duplice omicidio Lo Bianco-Locci), quando entrambi sentirono degli spari. I due videro poi un bambino e lo portarono in salvo. La Ciulli dichiarò inoltre che il marito era solito frequentare brutta gente (tra cui proprio Pacciani, Vanni e Lotti), e che, la notte dell'ultimo omicidio del Mostro di Firenze, questi ritornò a casa con ferite al volto; rivelò poi che l'uomo era stato possessore di diverse armi, che poi gettò in mare a Punta Ala, poco dopo il delitto degli Scopeti. I carabinieri perquisirono nuovamente l'abitazione del farmacista, ma anche stavolta non trovarono niente di sospetto o di particolare.

    A causa delle sue rivelazioni non supportate da prove, la Ciulli venne ben presto presa per una visionaria, mossa dal desiderio di vendicarsi del Calamandrei (che l'aveva lasciata per un'altra donna con la quale si era poi sposato) e ripetute successive denunce di questa nei confronti dell'ex marito non vennero nemmeno prese in considerazione dalle forze dell'ordine. Nel 2000, inoltre, Mariella Ciulli venne fatta rinchiudere in una clinica psichiatrica perché, sulla base di alcune perizie, venne riconosciuta come malata di mente.

    Il 16 gennaio 2004 il capo della squadra mobile di Firenze, Michele Giuttari, incaricato di ristudiare il caso del Mostro, chiese al PM Paolo Canessa il mandato per perquisire la casa dell'ex farmacista. Il 20 gennaio 2004 ebbe luogo la perquisizione ed al Calamandrei questa volta venne anche notificato un avviso di garanzia. Nel giugno 2005 Calamandrei ricevette anche un avviso di garanzia per concorso nell'omicidio di Francesco Narducci.

    Il 21 maggio 2008, al termine di un processo con rito abbreviato iniziato nel settembre 2007, Calamandrei accusato di essere il mandante dei delitti del Mostro di Firenze, viene assolto con formula dubitativa dalle accuse «in quanto il fatto non sussiste». Sempre nello stesso anno il gup di Perugia decise di archiviare il fascicolo che vedeva Calamandrei indagato, insieme al giornalista Mario Spezi, nell'inchiesta sulla morte di Francesco Narducci. Mentre si trovava ancora sotto processo, Calamandrei fu inoltre colpito da un grave lutto: suo figlio Marco, di 35 anni, venne infatti ritrovato morto in seguito ad un'overdose di droga.



    A causa delle sue rivelazioni non supportate da prove, la Ciulli venne ben presto presa per una visionaria, mossa dal desiderio di vendicarsi del Calamandrei (che l'aveva lasciata per un'altra donna con la quale si era poi sposato) e ripetute successive denunce di questa nei confronti dell'ex marito non vennero nemmeno prese in considerazione dalle forze dell'ordine.[138] Nel 2000, inoltre, Mariella Ciulli venne fatta rinchiudere in una clinica psichiatrica perché, sulla base di alcune perizie, venne riconosciuta come malata di mente.

    Il 16 gennaio 2004 il capo della squadra mobile di Firenze, Michele Giuttari, incaricato di ristudiare il caso del Mostro, chiese al PM Paolo Canessa il mandato per perquisire la casa dell'ex farmacista. Il 20 gennaio 2004 ebbe luogo la perquisizione ed al Calamandrei questa volta venne anche notificato un avviso di garanzia.[139] Nel giugno 2005 Calamandrei ricevette anche una informazione di garanzia per concorso nell'omicidio di Francesco Narducci.[137]

    Il 21 maggio 2008, al termine di un processo con rito abbreviato iniziato nel settembre 2007, Calamandrei[140][141] accusato di essere il mandante dei delitti del Mostro di Firenze, viene assolto con formula dubitativa dalle accuse «in quanto il fatto non sussiste».[142] Sempre nello stesso anno il gup di Perugia decise di archiviare il fascicolo che vedeva Calamandrei indagato, insieme al giornalista Mario Spezi, nell'inchiesta sulla morte di Francesco Narducci. Mentre si trovava ancora sotto processo, Calamandrei fu inoltre colpito da un grave lutto: suo figlio Marco, di 35 anni, venne infatti ritrovato morto in seguito ad un'overdose di droga.

    Francesco Calamandrei è morto il 1º maggio 2012, per un malore, all'età di 71 anni.





    Ipotesi del serial killer solitario legato alla pista sarda

    Una tesi seguita negli ultimi anni e profilata ad esempio da Mario Spezi nel libro Dolci colline di sangue del 2006, è quella secondo cui il mostro sarebbe un individuo legato al «clan dei sardi», già indagato marginalmente nelle vicende degli omicidi seriali. La tesi di Spezi muove dalla ricostruzione del primo omicidio del 1968 ritenendo che l'omicidio di Signa venne effettivamente commesso per ragioni sentimentali e «d'onore» da parte di soggetti legati alle famiglie Mele e Vinci, con la pistola Beretta ed i proiettili utilizzati successivamente dal mostro.

    Tuttavia, il mostro sarebbe del tutto estraneo a tale vicenda essendosi appropriato solo successivamente della pistola e le munizioni per avviare, dal delitto del 1974, la catena seriale di omicidi. Secondo Spezi solo un componente delle famiglie coinvolte nel primo delitto del 1968 avrebbe potuto appropriarsi di pistola e proiettili, essendo del tutto improbabile una casuale cessione, da parte del detentore, di un'arma e di una scatola di proiettili già utilizzati in un omicidio (quello del 1968, e quindi potenzialmente a rischio per lo stesso venditore). Sarebbe secondo Spezi soprattutto da escludere una cessione volontaria a soggetti estranei a quell'ambiente familiare, come pure un casuale e contemporaneo rinvenimento da parte di terzi di pistola e proiettili.[5]

    Secondo il giornalista gli omicidi sono da attribuire ad una sola persona, un serial killer che avrebbe sempre agito da solo. Va sottolineato che il «Carlo» che, secondo Spezi e il giallista Douglas Preston, sarebbe il Mostro di Firenze, è un uomo nato nel 1959 che, all'epoca del primo delitto, aveva circa nove anni. Mario Spezi e Douglas Preston affermano che non hanno mai ritenuto «Carlo» responsabile del delitto del 1968 e che lo stesso «Carlo» fu arrestato una prima volta nell'ottobre 1983 per detenzione di armi (un mese dopo l'omicidio dei due ragazzi tedeschi) e assolto. Finì di nuovo in carcere solo nel 1988, tre anni dopo l'ultimo omicidio del Mostro. Mario Spezi è stato arrestato nel 2006 con l'accusa di calunnia a fini di depistaggio delle indagini, proprio in conseguenza della sua propensione per la Pista Sarda, cosa che lo avrebbe portato, secondo la tesi accusatoria, a creare false prove al fine di portare gli investigatori sulla strada da lui voluta. Il Tribunale per il Riesame di Perugia, su ricorso dello Spezi, ha annullato l'ordinanza di misura cautelare emessa dal GIP nei suoi confronti sotto il profilo dubitativo sui gravi indizi di colpevolezza sul dolo della calunnia e, sotto il profilo oggettivo, per altra ipotesi di calunnia. Per l'ipotesi della calunnia, il GUP Dr. Paolo Micheli, con sentenza 20 aprile 2010, ha dichiarato il «non luogo a procedere» contro Spezi, con formula dubitativa sul dolo e solo il 20 febbraio 2012 il GUP ha depositato ben 934 pagine di motivazione della sentenza, un fatto assolutamente insolito per una sentenza di «non luogo a procedere». In data 22 marzo 2013, come si è visto, la sentenza del GUP Micheli è stata pressoché integralmente annullata dalla Corte di Cassazione.
  4. .
    Tratto da una lezione del criminologo Ruben De Luca
  5. .
    L' entomologia forense è quella scienza che studia i cicli vitali di quegli insetti che, sviluppandosi sui resti umani in decomposizione, sono utilizzabili ai fini della determinazione della datazione più o meno approssimativa della morte. I cadaveri infatti costituiscono un "ecosistema" che favorisce lo sviluppo di diversi insetti che partecipano attivamente al "riciclaggio della materia organica. Sembra accertato infatti che ben 8 squadre di insetti si succedano in modo regolare su un cadavere fornendo importanti informazioni ai fini temporali.
    Gli insetti che rivestono maggior importanza in questo studio sono i ditteri (le mosche) della famiglia delle calliforidi e i coleotteri.
    In particolare i ditteri della specie "calliphora vicina" comunemente nota come mosca domestica (la stessa che ronza intorno alle vostre tavole ai pranzi domenicali) formano la prima squadra di insetti ed è la specie più importante in questo studio e quella che mi appresto a descrivere.

    Il ciclo vitale dei ditteri prevede una metamorfosi completa passando attraverso diversi stadi:
    -uovo
    -larva (con tre stadi di maturazione)
    -pupa
    -mosca adulta

    La maturazione avviene in maniera variabile a seconda della tipologia dell'ambiente della temperatura e dell'umidità ambientale.
    L'attacco dei ditteri in ambiente terrestre avviene piuttosto precocemente. La colonizzazione diventa pressoché immediata durante la stagione estiva. Inoltre anche se fortemente attratti dai prodotti della putrefazione i ditteri sono in grado di colonizzare il cadavere solo se esso è accessibile e non sotterrato; bastano infatti 2,5 cm diterra per impedire la colonizzazione della 1a squadra di ditteri ritardando di fatto la decomposizione dei resti interrati.
    Fatte queste premesse andiamo ad analizzare le tempistiche del ciclo vitale delle nostre mosche:
    (su internet potrete trovare le immagini di ogni stadio del ciclo vitale e poterle così riconoscere)

    UOVO
    Generalmente di colore biancastro e di grandezza compresa tra 1-2 mm.
    I ditteri depongono le uova dove si riscontra un certo grado di umidità (narici, bocca, orecchia, ano, vagina ferite e lacerazioni). Solitamente vengono deposte a grappoli di 200-300. La schiusa delle uova avviene tra le 12-24 h dalla deposizione.



    LARVE

    1o stadio: in generale questo stadio è il più difficile da identificare. Di lunghezza di circa 2 mm sono lente nel movimento. Questo stadio dura circa 24-30 h

    2o stadio: deriva dalla muta (perdita dell'esoscheletro) muta del 1o stadio. Questo stadio ha una durata di circa 20 h e le larve raggiungono una lunghezza di 4-7 mm.

    3o stadio: solitamente hanno una lunghezza di 12-14 mm. questo stadio dura circa 2 giorni.



    PUPA (e prepupa):
    Le larve si allontanano dal corpo fino a 3m di distanza alla ricerca di un posto adatto all' impupamento. Raggiunto il luogo scelto le larve si immobilizzano,si accorciano (circa 7-8 mm) assumendo una forma cilindrica e la cuticola di rivestimento si ispessisce mantenendo una colorazione chiara. In tale fase (PREPUPA) le larve sono all'occorrenza capaci di riprendere la capacità di movimento. Nella fase di vera pupazione le larve rimangono immobili definitivamente, lacuticola si ispessisce ulteriormente cambiando progressivamente colorazione da un bruno-rossastro fino ad un marrone scuro. I tempi di maturazione da pupa a mosca adulta sono variabili di specie in specie ma a grandi linee durano più di 15gg.




    ESEMPIO: sviluppo di mosca domestica a temperatura costante di 26-27 gradi

    stato tempo da uno stadio all'altro tempo tot

    uovo 24h 24h
    larva1 24h 48h
    larva2 20h 68h
    larva3 48h 116h
    prepupa 128h 244h
    pupa 264h 508h


    Ovviamente ci sono una montagna di variabili che possono modificare le tempistiche in oggetto ma ad ogni modo questi dati ci danno degli intervalli di tempo importantissimi per la continuazione delle vostre indagini :D

    L ho spostato il post in una sezione più consona
  6. .
    Lo squartatore di Whitechapel

    https://www.dropbox.com/s/aon4436jg1u5zho/...%20PDF.pdf?dl=0
  7. .
    https://www.dropbox.com/s/fjctnmh6uh822zo/...20SETT.rar?dl=0


    Per eseguire Mett e Sett è necessario aver installato sul pc Daemon tools o programma similare.
    "Micro expression training tools" e "Subtle expression training tools" sono due tutorial creati da Paul Ekman per il riconoscimento delle micro espressioni facciali totali o parziali. Ekman è ormai giunto alle 3^e edizioni molto più complete e con un interfaccia più accattivante. Quelle che condivido sono la prime edizioni purtroppo... La seconda e terza edizione dei programmi sono fruibili solo online e a pagamento ma il prezzo non è molto economico... cmq per chi fosse interessato ecco il link dove è possibile scaricare METT e SETT 3.0

    www.paulekman.com/product-category/face-training/
  8. .
    www.ristretti.it/areestudio/giuridici/studi/rapetti.pdf
    per maggiori informazioni sul criminal profiling
  9. .
    Il documento allegato è tratto dalla tesi del dottor Vito Caterini, specialista in malattie cardiache e vascolari nonché diplomato in psicologia della devianza e della criminalità...
  10. .
    Se posso vorrei aggiungere qualcosina magari lo puoi integrare al tuo topic...

    L'altezza di caduta di una goccia di sangue è determinabile in modo approssimativo tramite il diametro della traccia ematica che ne consegue.
    Goccia di volume standard (0.5ml) in caduta libera producono tracce di diametro comprese tra 13mm e 21 mm in funzione dell'altezza.
    in particolare:
    Diametro - Altezza
    13mm - 15cm
    15mm - 30cm
    16mm - 60cm
    17 mm - 90cm
    18 mm - 120cm
    19 mm - 150cm
    21 mm - superiore a 2 m

    Inoltre parlando delle irregolarità ai margini delle tracce ematiche si osserva un aumento di punte e fresonature proporzionale all'aumento dell'altezza di caduta della goccia:
    -da 0 a 50 cm i margini della traccia saranno più o meno netti e precisi
    -da 50 cm a 1 m si avrà la comparsa di punte più o meno evidenti
    -da 1m a 1,5m punte più numerose ed evidenti
    -per altezze superiori a 1.5m si possono creare tracce ematiche secondarie intorno alla traccia primaria

    In particolare si riscontra un aumento di 2-3 punte ogni 10 cm di altezza in modo che a
    30cm - 16 punte (circa)
    40 cm - 18 (circa)
    50 cm - 20 (circa)
    60 cm - 23 (circa)
    e via di seguito...


    spero possa esservi utile
  11. .
    La tabella in allegato è stata costruita con criteri statistici e non è quindi da considerarsi veritiera in ogni situazione



    Edited by Marpat - 23/1/2015, 13:42
  12. .
    L' entomologia forense è quella scienza che studia i cicli vitali di quegli insetti che, sviluppandosi sui resti umani in decomposizione, sono utilizzabili ai fini della determinazione della datazione più o meno approssimativa della morte. I cadaveri infatti costituiscono un "ecosistema" che favorisce lo sviluppo di diversi insetti che partecipano attivamente al "riciclaggio della materia organica. Sembra accertato infatti che ben 8 squadre di insetti si succedano in modo regolare su un cadavere fornendo importanti informazioni ai fini temporali.
    Gli insetti che rivestono maggior importanza in questo studio sono i ditteri (le mosche) della famiglia delle calliforidi e i coleotteri.
    In particolare i ditteri della specie "calliphora vicina" comunemente nota come mosca domestica (la stessa che ronza intorno alle vostre tavole ai pranzi domenicali) formano la prima squadra di insetti ed è la specie più importante in questo studio e quella che mi appresto a descrivere.

    Il ciclo vitale dei ditteri prevede una metamorfosi completa passando attraverso diversi stadi:
    -uovo
    -larva (con tre stadi di maturazione)
    -pupa
    -mosca adulta

    La maturazione avviene in maniera variabile a seconda della tipologia dell'ambiente della temperatura e dell'umidità ambientale.
    L'attacco dei ditteri in ambiente terrestre avviene piuttosto precocemente. La colonizzazione diventa pressoché immediata durante la stagione estiva. Inoltre anche se fortemente attratti dai prodotti della putrefazione i ditteri sono in grado di colonizzare il cadavere solo se esso è accessibile e non sotterrato; bastano infatti 2,5 cm diterra per impedire la colonizzazione della 1a squadra di ditteri ritardando di fatto la decomposizione dei resti interrati.
    Fatte queste premesse andiamo ad analizzare le tempistiche del ciclo vitale delle nostre mosche:
    (su internet potrete trovare le immagini di ogni stadio del ciclo vitale e poterle così riconoscere)

    UOVO
    Generalmente di colore biancastro e di grandezza compresa tra 1-2 mm.
    I ditteri depongono le uova dove si riscontra un certo grado di umidità (narici, bocca, orecchia, ano, vagina ferite e lacerazioni). Solitamente vengono deposte a grappoli di 200-300. La schiusa delle uova avviene tra le 12-24 h dalla deposizione.



    LARVE

    1o stadio: in generale questo stadio è il più difficile da identificare. Di lunghezza di circa 2 mm sono lente nel movimento. Questo stadio dura circa 24-30 h

    2o stadio: deriva dalla muta (perdita dell'esoscheletro) muta del 1o stadio. Questo stadio ha una durata di circa 20 h e le larve raggiungono una lunghezza di 4-7 mm.

    3o stadio: solitamente hanno una lunghezza di 12-14 mm. questo stadio dura circa 2 giorni.



    PUPA (e prepupa):
    Le larve si allontanano dal corpo fino a 3m di distanza alla ricerca di un posto adatto all' impupamento. Raggiunto il luogo scelto le larve si immobilizzano,si accorciano (circa 7-8 mm) assumendo una forma cilindrica e la cuticola di rivestimento si ispessisce mantenendo una colorazione chiara. In tale fase (PREPUPA) le larve sono all'occorrenza capaci di riprendere la capacità di movimento. Nella fase di vera pupazione le larve rimangono immobili definitivamente, lacuticola si ispessisce ulteriormente cambiando progressivamente colorazione da un bruno-rossastro fino ad un marrone scuro. I tempi di maturazione da pupa a mosca adulta sono variabili di specie in specie ma a grandi linee durano più di 15gg.


    ESEMPIO: sviluppo di mosca domestica a temperatura costante di 26-27 gradi

    stato tempo da uno stadio all'altro tempo tot

    uovo 24h 24h
    larva1 24h 48h
    larva2 20h 68h
    larva3 48h 116h
    prepupa 128h 244h
    pupa 264h 508h


    Ovviamente ci sono una montagna di variabili che possono modificare le tempistiche in oggetto ma ad ogni modo questi dati ci danno degli intervalli di tempo importantissimi per la continuazione delle vostre indagini :D
  13. .
    Avete qualcosa che approfondisce lo studio dei cicli vitali degli insetti sui cadaver
14 replies since 18/1/2015
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