Psicologia dei Gruppi e Sociale

Come cambia il comportamento degli individui quando sono in gruppo

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    Aggiungo un appunto:



    “Come mette in evidenza Scheff nel suo libro, l'immagine della follia è qualcosa che continuamente la società elabora e impone, come il ritratto paradigmatico di ciò che è irragionevole, e quindi pericoloso. Sul negativo di questa immagine il singolo individuo costruisce fin dalla infanzia l'apprendimento e la coesione di comportamenti comunicabili e accettati.

    L'idea della sragione somiglia molto a un incubo primordiale, ma è modellata sulle esigenze di conformismo del sistema sociale. Fra le necessità (innate) del lattante vi è quella di un volto sorridente: con essa si viene a costruire, fin dai primi mesi di vita, il bisogno di un rapporto con figure adulte caratterizzate da benignità, stabilità, coerenza. Comportamenti affettivi inabituali e incongrui, manipolazioni insufficienti, brutali, imprevedibili o incoerenti con le attese legittime del bambino piccolo finiscono col danneggiarlo in modo grave, e gli sottraggono la possibilità stessa di costituire quella relazione interpersonale su cui egli costruirà, assai presto, il riconoscimento di sé."

    Con il proseguire degli anni, tutta l'educazione è continuità e affetto, ma anche invito e pressione alla ragionevolezza, cioè richiamo affettivo a uno scambio di atteggiamenti e comportamenti sorridenti e ben regolati. E sempre presente all'interno dello stereotipo educativo il richiamo preciso alla immagine negativa della scioccheria infantile, al volto minaccioso e ostile di ciò che è assurdo e ridicolo, imprevedibile e irragionevole, o che interrompe la coesione dei rapporti e la benevolenza delle autorità. Il nome di tutto questo viene a far parte molto presto del patrimonio di concetti del bambino ed è componente indissolubile della disapprovazione adulta. La breve frase "ma sei matto?" dice al bambino molto più di quanto l'adulto in quel momento non supponga.

    Nella società industriale, il bambino è costretto ad adeguarsi a norme di comportamento non sempre facili in un mondo che - si è visto - è caratterizzato da minacce sociali piuttosto che naturali. In questa situazione, l'immagine di ciò che è irragionevole è al tempo stesso complessa e rigida: complessa per le molteplici contraddizioni che la compongono; rigida, per la necessità sempre maggiore di allontanare lo spettro di una devianza "categorica," cioè di cautelarsi contro i rischi di errori nell'interpretare i criteri stessi della normalità.

    Per molti aspetti, si può affermare che ciascuno di noi combatte per tutta la vita contro il rischio della propria follia: la normalità non è garantita, così come non sempre può esser chiara la differenza fra ribellione e irragionevolezza. La convinzione preconcetta - tipico frutto di una ideologia individualista - che una determinata persona sia "equilibrata" essenzialmente in virtá di un meccanismo di omeostasi psichica interiore non regge alla prova dei fatti. L'equilibrio psichico (o ciò che per convenzione identifichiamo con questo termine) è qualcosa che si regge in virtù di una serie di equilibri interpersonali, e sulla conferma che ciascuno continuamente riceve dagli altri a proposito della propria normalità. Quando i rapporti interpersonali manchino del tutto (anche per pochi giorni) e soprattutto quando essi siano costituiti da atteggiamenti invalidanti e di "discon ferma" della normalità da parte dell'altro, l'equilibrio psichico del soggetto si incrina o si scompensa. La contraddittorietà e la complessità del vivere competitivo nella società capitalistica avanzata contribuiscono a rendere precari i meccanismi di conferma, e più insicura la reciproca difesa quotidiana contro la follia.

    Ragionevolezza e conformismo si confondono, e pericolosamente tendono a identificarsi. La difesa contro l'immagine della "sragione" e della follia consiste in gran parte nell'apprendimento e nell'autoimposizione di schemi di azione che siano "evidentemente" normali, e diano la garanzia di fronte agli altri di essere conformi a una norma comunemente accettata. Il rifiuto e la stigmatizzazione sociale della devianza psichiatrica servono a confermare la normalità e il conformismo di chi li esprime, secondo le "dinamiche del pregiudizio" così estensivamente studiate dagli psicosociologi americani. Occorre però notare ancora come, nella dinamica dei rapporti interpersonali, il problema psichiatrico presenti caratteristiche pia specifiche su cui occorre soffermarsi.

    I rapporti interpersonali sono strutture comunicative verbali e non verbali basate su una serie di reciproche asnettative di comportamento. Questo scambio avviene sempre sulla base di una intesa circa i confini entro cui può variare il comportamento dei membri dell'interazione. In una cultura e in una subcultura determinate, i limiti del comportamento accettabile (e quindi "ragionevole") nell'ambito di una situazione interattiva diretta (come può essere quella di un gruppo di persone che parlano fra loro) vengono in genere stabiliti sulla base di una serie di intese preliminari, e di esplorazioni fra i membri del gruppo. Il pericolo di una dissonanza determina sempre un certo livello di ansia: questa è minima quando il gruppo sia stabile, e si sia stabilmente accordato sul tipo di messaggi e di codici che vengono usati in quella situazione: è massima quando esista il pericolo che qualcuno rompa gli accordi e metta in crisi la stessa struttura comunicativa di base del gruppo.

    La possibilità, in questi casi, di gestire l'ansia del gruppo, e di condurre il trasgressore all'osservanza di regole comuni (o alla sua espulsione) è legata alla garanzia di interpretare la trasgressione, e quindi di esercitare sul trasgressore una risposta, che quest'ultimo sia costretto a recepire, e che quindi possa modificare il suo comportamento.

    Quando però la trasgressione venga vista come espressa in un altro linguaggio, come assurda, come totalmente fuori da ogni contesto accettabile, cioè con il volto della follia, essa non sembra interpretabile né retroagibile, e tende a inibire negli altri ogni possibilità di vincolare o contestare il comportamento deviante. Il tessuto minimale di intesa nel gruppo appare lacerato, tanto che pare mancare ogni possibile interpretazione e comunicazione anche fra gli altri membri. Il ricorso alla violenza è quasi automatico. Occorre insistere però a questo punto su di un dettaglio fondamentale: il comportamento "folle" non è in quanto tale distruttivo della struttura di comunicazione del gruppo, ma lo è nella misura in cui il gruppo decide che il messaggio inviatogli con la maschera della follia è "fuori da ogni regola possibile," intollerabile e incomprensibile in senso assoluto. La trasgressione appare non interpretabile perché così viene deciso, cioè in primo luogo perché si finge di non sapere che ogni trasgressione è una sfida, e perché si finge di non vedere che anche l'incongruenza di quel comportamento ha una ragione, e dice, anche se malamente, qualcosa al gruppo.

    La follia in un certo senso prototipica, ma solo apparentemente più minacciosa, è quella del delirio confuso: una persona che ha per caso la febbre alta, che è intossicata, improvvisamente non riconosce le persone, vede cose che non esistono, è terrorizzata e terrorizza i familiari. Questi ultimi, in realtà, dispongono della possibilità quasi immediata di destorificare il comportamento malato, di metterlo fra parentesi. Essi sono pronti a fornire spiegazioni culturalizzate, che oggi sono di tipo medico: il malato ha la febbre alta, il cervello infiammato, è come se sognasse, si vede che ha una crisi, e quindi guarirà, non è momentaneamente in sé, meno che mai è responsabile. L'uscita del paziente dal tessuto comunicativo è netta, è letteralmente una assenza, e una assenza giustificata.

    Ben diverso, e significativamente più minaccioso, il delirio lucido. E questa una persona che ci somiglia, che vediamo come uno di noi, partecipe del nostro stesso contesto interpretativo della realtà, ma che in questa situazione fa cose fuori posto. (Ad esempio borbotta, dice che ci sono microfoni, porge l'orecchio a delle voci, interpella gli astanti su delle tesi oscure e incredibili, li accusa, oppure sta tutto il giorno a letto rifiutando di alzarsi, e cosí via.) Qui il gruppo viene minacciato dall'interno stesso della propria normalità. In questo caso infatti il soggetto, a differenza che nel delirio confuso, in cui "non era in sé," è contemporaneamente dentro, e fuori dal contesto: egli non è così evidentemente malato e irresponsabile, sembra normale, e infatti viene sempre ambiguamente considerato colpevole di ciò che fa, anche quando l'etichetta di "malato di mente" sia stata ufficialmente applicata, a tranquilizzare l'ansia di tutti. In questi casi la follia ha vanificato la sicurezza e la coerenza del tessuto che lega ciascuno agli altri: la contraddizione riguarda tutti. Di qui, un processo di aggressione, di stigmatizzazione e di espulsione tanto più violento quanto meno automatico nelle premesse.

    Allorché il deviante è stato consegnato alla psichiatria, se per un verso il problema della sua "cattiveria" entra in ombra (era malato, o "esaurito"), per contro sorge l'ansia della colpa, della responsabilità dei suoi familiari e dell'ambiente per la sua malattia. E questo perché, per l'appunto, non è affatto evidente che si tratti di una malattia. Sono mancate infatti tutte le caratteristiche tradizionali di essa: il paziente non aveva mal di testa né febbre, non si è mai ritenuto malato, non ha sofferto di una diminuzione evidente delle sue capacità vitali. Rimane il sospetto (e quanto giustificato!) che il suo comportamento non sia disarticolato dal contesto, ma al contrario sia il risultato di una serie di vicende, di rapporti interpersonali, di contraddizioni in mezzo alle quali il "malato" è rimasto intrappolato. Questa ipotesi però non è accettabile da chi è stato a contatto con lui: egli deve essere malato nel cervello, perché i nostri rapporti interpersonali non possono produrre queste contraddizioni.

    L'attenzione alle dinamiche psicologiche può indurre a trascurare il fatto che esse sono, in particolare su questo punto, dinamiche politiche. Il gruppo "sano" rifiuta di considerare l'ipotesi che esistano al proprio interno contraddizioni così grosse da creare comportamenti devianti, perché la società deve difendere i propri privilegi, lo status quo generale, la propria ideologia. Per questo, l'etichetta medica ("è malato nel cervello") o la sua revisione psicoanalitica ("ha dei problemi non risolti con forze e immagini del suo inconscio") viene attribuita con tanta più facilità quanto più è necessario negare che esistano contraddizioni sociali, capaci di produrre forme di devianza che si esprimono in critica e insubordinazione.`

    Il tipo di dinamiche che abbiamo tratteggiato finora si riferisce a ciò che accade fra il gruppo e l'individuo manifestamente affetto da disturbi mentali.

    Gran parte del problema politico della psichiatria oggi è legata al fatto che il controllo sociale sulla devianza in genere tende ad estendersi come controllo psichiatrico su un numero sempre maggiore di persone che non sono manifestamente affette da disturbi mentali. Ciò è legato non solo ai vantaggi offerti dalla squalificazione psichiatrica dei dissidenti, ma anche dalle possibilità crescenti (anzi: rapidamente crescenti) di modificare e controllare i sentimenti, i pensieri e le azioni mediante l'uso di farmaci, di tecniche di condizionamento, e della psicochirurgia. Si va dall'induzione a un uso volontario sempre maggiore di tranquillanti e euforizzanti sempre pia perfezionati da parte della popolazione, all'uso di psicologi, psichiatri, psicoanalisti per il controllo sociale delle zone urbane statunitensi pia "esplosive," fino all'uso (sistematicamente crescente in taluni paesi dell'America latina, sulla base di "consulenze" yankee) di metodi di tortura e di ricondizionamento di prigionieri politici in cui la violenza fisica tradizionale è sostituita da atroci "lavaggi del cervello," piü scientifici ed efficaci.

    Tutto ciò è dovuto a motivi politici, ma è reso possibile per un lato dal fatto che non esiste un limite definito fra normalità e anormalità mentale, e per un altro lato dal fatto che il potere e i pareri del "tecnico" (cioè dello psichiatra) sui limiti della psichiatria e sui suoi compiti sociali vengono sistematicamente accettati anche "da sinistra" come indiscutibili, soprattutto quando si applichino al caso concreto. Questo pericoloso, continuo e rinnovato rispetto per la "scienza" psichiatrica, magari nelle sue versioni più moderne e scaltrite, non viene certamente scalfito dagli pseudo-estremismi di chi sostiene che la malattia mentale non esiste, ma tende anzi a crescere e a trasmettersi a livello di massa, sotto forma di una nuova immagine sociale della devianza, intesa come devianza psichiatrica.

    L'idea, sempre pia diffusa, è dunque che la persona caratterizzata da comportamenti irregolari, abnormi, insoliti o antisociali vada curata. Dal momento che questa persona ha dentro di sé il guasto dell'anormalità psichica, tutte le sue azioni divengono tali da non poter esser più giudicate secondo responsabilità e morale, in giuste e ingiuste, accettabili e inaccettabili, sane e folli: tutta la sua attività è segnata da un danno imprevedibile e irrazionale, ogni suo atto è incrinato dalla follia, potenzialmente incomprensibile, e anche pericoloso.”
     
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